Quando si entra nei territori della leggenda, si rimane nel dubbio se oltrepassare il confine del fascinoso o rimanere nel contesto della quotidianità, scandagliando la vita di una persona fra i meandri dei suoi lati oscuri o all’interno dei suoi sogni; se il fine è capire come può essere l’esaltazione di aver cavalcato un’utopia, o di essersi calati nel suo fallimento cercando fra i suoi resti e di cosa è realmente rimasto per strada. Chiedersi dei tanti perché sulle potenzialità di un artista: sia normale che genio della sua epoca, e sulle libertà che un individuo sceglie per se stesso, convincendosi che la grandezza è solo nel proprio cuore e non in quello di tanti personaggi anonimi.
Di conseguenza, parlare di David Crosby, vuol dire prima di tutto emozionarsi (perché al di là di tutti i discorsi legati alla “retromania” o alle storie individuali, ciò che rimane è sempre la musica e come tale, ci permette di piangere o di sentirci felici, a nostro piacimento), e poi di ripercorrere, nota per nota, brano per brano, l’aura della sua personalità. Certo, potremmo cadere nel citazionismo cronologico della sua carriera, dai Byrds ai Crosby, Stills & Nash; dall’aggiunta di Neil Young al famoso trio, al sodalizio in duo con l’amico di sempre Graham Nash; dai suoi pochi lavori solisti alla collaborazione con Paul Kantner dei Jefferson Airplane, fino alla partecipazione con il gruppo denominato “CPR” del figlio dato in adozione e ritrovato successivamente proprio sulla strada della musica, e nel mezzo il baratro delle droghe pesanti dopo la morte della compagna Christine Hinton e un trapianto di fegato con tutte le sue conseguenze. Insomma, di materiale ne abbiamo per poter scrivere almeno tre libri, eppure, bisogna resistere alla tentazione della Storia perché l’uscita di questo album, forse inatteso, è a tutti gli effetti motivo di entusiasmo, straordinario, per tutto ciò che esprime e contiene. Basta solamente guardare la sua immagine per rendersi conto del perché: un viso illuminato dai suoi ideali sempre portati con la fierezza di chi ha creduto e crede ancora, dopo tanti anni, nelle potenzialità della parola “libertà”. Il disco è un insieme di gemme preziose, lucidate e fatte brillare con la maestria di sempre, con il suo stile melodico e pulito, con arrangiamenti perfetti, con un lavoro di produzione d’altri tempi, pregevole fino ai dettagli più nascosti e con un insieme di ospiti importanti per infarcire il prodotto, perché di prodotto si parla. Ma quando l’esito è questo tipo di musica, sublimato con una bellezza da estasi pura, non si può che inchinarsi dinanzi a ciò che ci viene regalato, perché l’assolo di sax o di tromba inseriti al posto giusto, i cori sovrapposti allo struggente cantato di David, le chitarre che si fondono e si dilatano intorno alle strofe delle canzoni, sono un insieme di perfezioni che rasserenano l’animo nei momenti più bui. Ho accennato allo struggente cantato di David, ebbene, ripercorrendo la sua vita mi sarei aspettato una voce corrosa dagli anni, magari più roca e con qualche grugnito qua e là, invece è la rappresentazione stupenda dei vent’anni, quella magnifica ossessione che ti senti dentro quando vivi la tua gioventù e te la porti dentro per tutta la vita. Provate ad ascoltare i primi 37 secondi di questa traccia: Setthat Baggage Down, per capire la grandezza di un personaggio, e poco importa se poi il tutto prosegue attraverso i cori e un insieme di suoni armonici nonostante il testo parli di prostituzione minorile. In questi 37 secondi (10 di cantato effettivo come solista) sono tutte compresse le qualità canore della bellezza.
Potremmo anche sezionare traccia per traccia, ma sarebbe un lavoro aggiuntivo a questo incedere di perle: ognuna con le sue trasparenze e le sue preziosità dentro alla flessuosità del loro movimento, incarnato nella forma sferica dove tutto scorre e rotola via con gioia. Certo, c’è anche qualche caduta, ma dicono che un vero diamante deve avere dei difetti per essere un “diamante”. Probabilmente è un disco da automobile e sarà anche così, però è un’automobile che percorre le lunghe strade statunitensi, inseguendo ancora quel sogno in cui qualcuno ci ha creduto, e forse proprio per questo è consapevole di averlo vissuto, conservando proprio tutto il bello che gli stava intorno, incarnando la frenesia di una generazione che si è bruciata troppo in fretta, ma che ha lasciato un segno indelebile nell’immaginario collettivo.
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Sono passati più di quarant’anni da “If Could Only Remember My Name”, quel capolavoro dove convergevano e si chiudevano le speranze del sogno americano, e venti dalla risposta “Oh Yes I Can”, perché dall’autodistruzione si può riemergere sempre, ogni volta, e ogni volta si ritorna a ribadire la propria lealtà e la consapevolezza di essere ancora lì a mostrare il proprio volto come un’icona, come chi ha provato a cambiare il mondo e non vuole mai smettere di crederci, come la sua immagine ultrasettantanne con il suo faccione e la sua chitarra davanti al movimento Occupy Wall Street, quasi a ribadire che loro ci avevano provato e ora tocca a voi.
Rimane il peccato che tanto talento si sia perso e ritrovato troppe poche volte, perché questo disco conferma tutte valenze della sua classe, nella speranza che non bisogna aspettare i suoi cent’anni per un altro capolavoro. Per chi si è perso i suoi dischi precedenti invece, consiglio il cofanetto Voyage dove è racchiusa tutta la sua carriera, attraverso una selezione di pezzi dentro a tre CD, i quali, non fanno altro che aumentare quell’alone di leggenda probabilmente mai nata per caso: David Crosby, Croz, per gli amici !!!
Notevole!
ciao Antonio
un bel post!
(ma che lo dico a fare…)
.marta
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va bene non lo dire 🙂
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Il volto di Crosby mi ha sempre ricordato Wild Bill Hickok. E da lì a passare all’interpretazione romantica che ne ha dato Gino D’Antonio per me il passo è breve. E le canzoni di Crosby sono un’ottima colonna sonora per il West più crepuscolare. Grande artista, ha fatto poco ma l’arte non si valuta sulla quantità (un 45 giri della Stax vale doppi e tripli LP di certi gruppi, ecc.) ma sulla sua credibilità civile meglio lasciar perdere. Buoni ascolti.
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ma si… qualche arma illegale (tipo appunto Wild Bill Hickck), un po’ di galera, uso e spaccio di droghe e quant’altro. Ma si… meglio i fumetti di D’Antonio, e poi tutto il peggio del peggio.
Ma si… sempre meglio la musica (e non alziamo la coperta (se penso a Young) viva!!!). Meglio la musica!!!
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Hickok… pardon
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Hic! Pardon.
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che brutto singhiozzo… ma cosa diavolo hai bevuto !!!
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Ah, non lo so, sei tu il barman!
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🙂
allora sei proprio un dilettante per non reggere questo tipo di alcol !!!
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Hai detto tutto tu non mi resta che la mudica.
shdhdherazade
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