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Ed eccolo l’uragano, anche se è solo l’inizio, perché il suo turbinare sarà lungo e insistente. Chiaramente, non è facile descrivere l’esibizione degli Swans all’Alcatraz di Milano di domenica 12 ottobre, anche perché, tutto sommato, coloro che sono andati a vederli (compreso il sottoscritto) sapevano a cosa andavano incontro, e lo dico in senso positivo, perché assistere ad una loro performance è come calarsi in una trance ipnotica insistente e ossessiva, in cui si è respinti e catturati al tempo stesso. Scordatevi però aggettivi come: techno, house o ambient che dir si voglia, e probabilmente nemmeno territori più consoni come il krautrock o il progressive, perché l’espressività di questo gruppo statunitense travalica ogni direzione per chi, pensando alla forma canzone, si aspetterebbe una sequenza di brani cantati e suonati in successione. Bisogna anche sottolineare che gli Swans sono molto diversi da quando vengono ascoltati dal disco, perché in questo caso il lavoro di produzione e di rifinitura viene concepito proprio per la genesi di un prodotto, anche se pensato per essere opera d’arte, come potevano essere le sinfonie o in senso più moderno le ricerche di Edgar Varese o di Luciano Berio; sono paragoni impropri lo so, ma è per chiarire le idee a chi non conoscesse il delirio iconoclasta del loro leader Michael Gira, il quale crea una separazione netta fra l’esibizione da vivo e la fruizione dal disco, come è giusto che sia.

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Ma veniamo a noi: dopo l’apertura della bella quanto conturbante Margaret Chardiet, in arte “Pharmakon”, la quale ci regala, per così dire, la sintesi (circa 15 minuti) della sua disperazione fatta di campionamenti creati per l’occasione e una serie di urla sbattute in faccia agli astanti, nel preciso intento di comunicare soltanto disagio o perlomeno, di stupire il pubblico con la perfetta alchimia che porta la bellezza vicino all’orrore. Si dice che l’eccessiva bruttezza può essere paragonata all’eccessiva bellezza come tesi e antitesi di un pensiero, e allora, spente le luci, uno alla volta arrivano loro: i Cigni di New York, senza favole da proporre nella metamorfosi legate a un animale, ma ancora una volta nella certezza che tutte le filosofie vanno a farsi benedire. Inizia così un lunghissimo mantra di suoni (lungo circa due ore e mezza), in cui, tutta una serie di accordi ripetuti fino allo sfinimento, caratterizzano le varie sezioni dell’esibizione dove è difficile riconoscere i vari brani, dilatati a dismisura in cui, anche il concetto di finito e infinito, potrebbe essere messo in discussione, e la valenza di climax e anticlimax un’ipotesi fatta solamente di piccolissimi dettagli.
Come sempre nelle recensioni si parla di folk apocalittico, di cruenta discesa negli inferi, di ultimo atto della follia, ma in realtà è come sentirsi prima inghiottiti in un buco nero e poi, invece che scomparire nel suo gorgo quantico, si rimane sospesi ad osservare la nascita e la fine di un universo che ha prodotto solo il male. Per questo motivo non è solo rock, ma il suo superamento dove: industrial, dark, sperimentazione, avanguardia, distorsioni, rumore e melodia, si equivalgono e si respingono a vicenda, circondati da una serie di ritmi tribali in cui la sezione ritmica la fa da padrone, e i restanti strumenti (chitarre comprese) si alternano e si inseriscono nell’apoteosi sonora, nell’epifania sincopata e distruttiva.

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Difficile stilare la scaletta del concerto stesso perché rischierei di confondere i vari brani, comunque il pezzo di partenza dovrebbe essere l’inedita Frankie M seguito da A Little God In My Hands (dall’ultimo lavoro), e poi ancora The Apostate (dal penultimo), quasi a chiudere la prima parte della performance. Poi Just A Little Boy (ancora dall’ultimo) l’inedita Don’t Go e il grande finale con Brig The Sun (sempre dall’ultimo) insieme a Black Hole Man, altra inedita, quasi a volte dimostrare che, nonostante la trama allucinatoria, questi personaggi sono sempre in divenire e che, la storia iniziata con The Seer e poi proseguita quest’anno con il bellissimo To Be Kind, avrà sicuramente un seguito per terminare una trilogia destinata a rimanere impressa nella memoria degli appassionati di questo genere.

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Se una giornalista mi chiedesse di esprimere un’opinione su questa esibizione, le risposte potrebbero essere così: “cosa ne pernsi del concerto degli Swans?”  Cosa vuoi che ti dica… più che un concerto è stata un’esperienza. Sai… una di quelle esperienze che devi fare prima o poi nella vita. “Cosa intenti? Tipo il primo sguardo, il primo bacio, il primo rapporto sessuale?”  No, no… la prima sberla, la prima scazzottata, il primo omicidio! Si perché vedi, non fare la faccia stupita, ognuno ha i suoi riti di iniziazione alla vita, e quelli degli Swans, probabilmente sono stati questi. A parte gli scherzi il concetto è proprio legato alla vita di Michael Gira (ex tossico, ex detenuto, ex tutto, ormai sessantenne) che  ha sicuramente influenzato la sua musica, ma quello che stupisce è la capacità di espressione che ha portato questo gruppo all’interno di una seconda giovinezza, questa volta senza droghe e ossessioni,  ma con l’eredità di un passato che vale solo come una delle tante storie da raccontare, perché ora, c’è solamente l’arte da proporre come esperimento, e i loro ultimi dischi ne sono la splendida conferma.

il Barman del Club

Swans live 2

A parte quella di apertura (fatta dalla mia postazione), le foto seguenti sono tratte dal web 

6 Comments on “SWANS – Live all’Alcatraz di Milano

  1. No, proprio non è il mio genere. A suo tempo avevo sentito alcuni brani, direi una bugia a citarli, ma adesso riascoltando Tobe kind…mi sembra come se – ma nn lo posso dire per certo – come se mi fossi ‘fatta’.

    sherarridammeColtranepureLouReed

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  2. 🙂 lo so, non è musica facile, ma d’altronde bisogna sempre bilanciare una certa forma di espressività, alternandola con la semplice fruizione. Un giorno si ascolta la bella canzone e l’altro una forma di sperimentazione, calandosi nella mente di un artista.
    Per Lou non ti preoccupare, sta arrivando anche lui…

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  3. La musica di Gira (finalmente me ne sono reso conto) mi ricorda la scrittura di Lovecraft.
    “(I miti di Lovecraft)… sono spesso archetipi zoppi, che ricordano per difetto quelli secolari, eppure hanno un principio di coerenza che li rende persistenti.” -Daniele Brolli.
    Tutte quelle estenuanti descrizioni di mostri, che alla fine sono solo ammassi di bocche e tentacoli le associo alle corde pestate a volume altissimo da Gira.

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