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Visto che abbiamo appena parlato di Lou Reed, mi sembra giusto mettere in risalto quest’album uscito nel 2014. Lou infatti, è un accorato omaggio di Joseph Artthur al suo maestro di sempre, probabilmente fonte d’ispirazione per il suo modo di sentire la musica e la poesia; non è casuale che nei suoi dischi si senta questa influenza, anche se mediata e poi trasformata nella sua forma di espressività come è giusto che sia. Ma al di là di tutto questo, rimane inalterata la dedica fatta con istintiva sincerità verso colui che lo ha affascinato e fatto crescere artisticamente. Anche la semplicità della copertina trasmette questa sintesi di pensiero e in un certo modo anticipa tutto il contenuto di questo lavoro, costruito attorno alla scarnificazione degli strumenti scelti: chitarra acustica, piano e voce sola (raddoppiata appena in qualche episodio), giusto per dimostrare che per esaltare la poesia e il suo contenuto, basta poco, anzi, pochissimo…
Anche la scaletta dei pezzi scelti è fatta a mio avviso con intelligenza, alternando brani famosi e non, eseguendo soprattutto quelli conosciuti con una trasformazione che esce dai soliti cliché, e dagli ascolti ovvii che avrebbe proposto un  tributo qualunque. Non è casuale infatti, che la traccia d’apertura, la celeberrima Walk on the Wild Side, è modificata rispetto all’originale quasi fosse un demo e trascritta come doveva essere: semplicissima, come una storia qualunque, senza troppi intrecci di produzione. La seconda traccia, Sword of Damocles da “Magic and Loss” non si discosta più di tanto dal brano omonimo, essendo anch’esso essenziale, a parte l’orchestrazione di sottofondo che in questo caso sparisce del tutto quasi fosse un  traditional. Lo stesso discorso vale per la terza traccia: Stephanie Says, dal repertorio dei Velvet Underground, che scivola con lo stesso ritmo lento, ma evita i vari ninnoli dell’arrangiamento conosciuto, utilizzando un andante più sobrio. Per la quarta traccia, la famosissima Heroin, dall’altrettanto famoso Lp con la “banana” di Warhold, abbiamo ascoltato così tante versioni che Joseph Arthur esegue la sua in solitudine, tanto per esorcizzare tutte le varie teorie sul testo, che poi sono solo teorie, perché queste parole sbattute in faccia con  la rabbia e tanta introspezione, la rendono più vera e urticante al tempo stesso. Si continua con NYC Man da “Set the Twilight Reeling” come se tutte le tragedie shakespeariane citate nel titolo si fondessero in una consuetudine abituale durante la lettura di un quotidiano: “…tu dimmi solo – vai – e sparirò / senza rimorsi / senza lettere, lacrime o chiamate / c’è differenza / tra cattivo e peggiore // New York ti adoro / e se vuoi in un batter d’occhio sparirò / un grano di sabbia e niente più”. La sesta traccia, Satellite of Love da “Trasformer” non mi è mai piaciuta, e infatti risulta troppo mesta anche in questo caso, quindi saltiamola, anche se il nostro ammiratore ha avuto l’accortezza di farla durare solo il tempo necessario per terminarla. Il livello si alza con la successiva successiva Dirty Blvd perché un album come “New York” fa sempre ascoltare con piacere e in fondo,  se Pedro vuole scomparire con il suo libro di magie trovato per caso nei rifiuti, anche noi proviamo con la nostra immaginazione a fare lo stesso senza nemmeno contare.

joseph-arthur-louJoseph Arthur

Il seguito con Pale Blue Eyes (sempre del repertorio dei Velvet); Magic and Loss (sempre dal disco omonimo, uno dei più belli, tanto per espormi…); Men of Good Fortune da “Berlin”; Wild Child dall’esordio solista di Reed e la conclusiva Coney Island Baby (eseguita con una liricità straordinaria); continuano sempre con stile asciutto con cui  Joseph Arthur ha concepito questo lavoro: un omaggio al suo eroe sottolineando il valore poetico delle esecuzioni, la figura di un uomo che ha raccontato storie di tutti i giorni e le ha fatte diventare canzone, come se nel buio della sua stanza: quella di Joseph, quella che aveva da ragazzino, magari proprio a Coney Island, piena dei manifesti del cantautore newyorchese, si fosse ricostruita l’atmosfera di un tempo e come tale andava ricordata. Non c’è nessun artificio, nessuna esaltazione; solo tanto amore, tanto amore e tanta passione. Un’idolo ma anche un amico ricordato con la più normale semplicità e con una bellezza struggente che fa venire i brividi: “… quando te ne stai tutto solo nel mezzo della notte / e scopri che la tua anima è stata messa in vendita / e cominci a pensare a tutte le cose che hai fatto / e cominci a odiare proprio tutto / allora ricordati della principessa che viveva sulla collina / e che ti  ha amato anche quando sapeva che stavi sbagliando / (…) / quando tutti i tuoi amici da strapazzo se ne sono andati e ti hanno fregato / e ti parlano dietro le spalle dicendo che non sarai mai / un essere umano / allora ricominci a pensare a tutte le cose cha hai fatto / e a questo e a quello / e tutte le varie cose / te le rivedi in modo diverso / allora ricordati che la città è un posto divertente / qualcosa simile a un circo o a una fogna / e ricordati  che gente diversa ha gusti differenti / e la gloria dell’amore / la gloria dell’amore / la gloria dell’amore / potrebbe sostenerti…”

18 Comments on “LOU – Joseph Arthur

  1. “Cento culi, duecento chiappe” (tanto per restare in tema) e ognuno ha il suo Lou Reed (o il suo Dylan o chiunque altro) e quindi va bene. Trovo però inutilmente sofisticato scegliere Stephanie Says invece che Caroline Says II -a meno che non sia stato fatto per risparmiare qualcosina in diritti d’autore.
    (Che poi al nostro barman non piaccia Satellite of Love è la classica scommessa per vincere facile, visto che è forse la canzone di Transformer dove si avverte maggiormente il peso di Bowie, eh eh. Mesta? Sì, ma solo dopo che ha tirato via i lustrini -il glam).

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  2. Ok, niente lustrini. Ma lasciami dire che un barbiere e dei vestiti che non vengano dai cassoni Humana urgono al buon Joseph più di una sezione ritmica. Come suggeriscono Cale e Reed …

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  3. Comunque, parlando del disco, non si può dire niente. I toni malinconici (direi, senza polemica, che rientra nei cantanti “piangina”) di J.A. Reed non li usava e io non mi ci ritrovo e non ci ritrovo Lou. Ma questo è appunto il Lou di Arthur e lui sente così. A me fa l’effetto di “Zappa canta Cohen” ma non è una critica. Buona pioggia!

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  4. Ma no, nessun terreno minato, scherzavo un po’. Anche io sono ateo e sull’amore, diciamo che se è una malattia è pieno d’ipocondriaci, più che veri malati. Lou ha certamente visto di peggio (ma di cosa scusa?).

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