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L’aver lasciato chiuso il locale per diversi mesi, come ho già anticipato, mi ha lasciato molto indietro nelle recensioni musicali di quest’anno, dovrò quindi farvi assaggiare qualche specialità per rimettermi in carreggiata, visto che di qui a poco, arriveranno anche le classifiche dei migliori dischi del 2016. E’ un po’ come l’aperitivo fatto per sorridere, o la pausa pranzo eseguita non dico di corsa, ma veloce per poi riprendere il lavoro, o la scampagnata fatta in compagnia nell’osteria di turno, perché ogni tanto, anche un bel panino, un salame nostrano con un bicchier di vino, sono sempre una soddisfazione.
Partiamo quindi con degli album decisamente da “gustare”: musica degna di entrare nei nostri palati con la leggerezza e la soddisfazione di poterci deliziare, nella sua totalità, con tutte le sue sfumature.

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HAWKWIND
“The Machine Stops”

Anche se della formazione originaria è rimasto un solo elemento: il chitarrista Dave Brock, stupisce il ritorno di questo storico gruppo degli anni ’70 con un disco straordinario, il quale, non smentisce la fama degli alfieri dello space-rock più innovativo. Infatti, quasi a quarantasette anni di distanza dal loro esordio, e a quarantadue dalla pubblicazione di “Silver Machine”: allora cantata da un certo Lemmy, e dal testo evocativo, visto che parlava di viaggi nel tempo, si riprendono la giovinezza con un concept-album degno della fantascienza che gli appartiene, come se quella macchina argentata non si fosse mai fermata, pronta a riprendersi i loro passeggeri in un andirivieni senza fine. Ispirato proprio ad un racconto di science-fiction dello scrittore E.M. Forster, riemergono dal passato come se fossero entrati dalla loro porta spaziale a lasciarci un saluto, prima di ripartire con una nuova “Enterprise” impostata alla velocità di curvatura, visto che nulla è cambiato da allora. Il loro è un rock che sfiora appena il progressive per impostarsi sulla trama di un garage sporcato di elettronica e di kraut quanto basta, per imbarcare tutti i corrieri cosmici che incontreranno per strada, pronti a portarli, non tanto alla visione di un film, ma dentro una realtà futuribile prossima ventura, dove, un’enorme cervello virtuale, governerà tutti gli abitanti della Terra. Però, cosa potrà succedere se questa macchina a un certo punto si fermasse? D’accordo… potrà succedere di tutto ma, non fermerà mai la musica! Ed è proprio con le sue note, che scopriremo, il vero significato dell’eternità.

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LUCINDA WILLIAMS
“The Ghost of Highway 20”

Dopo lo splendido “Down Where The Spirit Meets the Bone” di due anni fa, questa importante cantautrice di Lake Charles in Louisiana, ritorna sulle scene con un album altrettanto intenso, sofferto, intimista e profondo quanto basta, da renderci partecipi a tutte le sue riflessioni. Dedicato alla morte del padre Miller Williams: pianista, poeta e sognatore come la figlia, è un insieme di storie e di ricordi on the road nati proprio sulla Highway 20, la quale, ripercorre territori che dalla Carolina del Sud portano fino in Texas.
E’ chiaro che la mitizzazione di queste lunghe vie nate per collegare tutti i luoghi degli Stati Uniti, da sempre nell’immaginario collettivo degli americani, si popolano di tutta una serie di personaggi, vissuti per essere degli eroi perdenti tanto cari agli artisti che li vogliono ricordare, perché la vita e la poesia che li contraddistinguono si fondono con le idee di ognuno di loro, e proprio con loro riprendono a vivere: fantasmi di un passato che non si vuole estinguere. La ballate di Lucinda sfiorano come carezze la melanconia dei ricordi appartenuti a ognuno di loro, e di cui la sua musica gli appartiene, quasi ad essere una forma di risarcimento. Ma la tristezza latente diventa un’emozione fortissima, talmente alta da far venire i brividi anche alla sabbia dei deserti o delle paludi che, lungo il percorso di una vita, ognuno di noi si porta dentro, come se sfogliassimo un quaderno di foto in bianco-e-nero. Bisogna chiudere gli occhi, lasciarsi andare e abbandonarsi alla dolcezza estrema di queste liriche, dove la nostalgia scivola via insieme agli accordi di una chitarra e un alternarsi  di parole, le quali, ad ogni storia raccontata, ci entrano dentro, spalancandoci il cuore.

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THE LUMINEERS
“Cleopatra”

Dopo il successo internazionale del loro omonimo esordio nel 2012, questo gruppo formatosi in uno dei sobborghi di New York, ripercorre le tracce di un folk-pop tanto orecchiabile, quanto decisamente “piacione”, anche per chi non è avvezzo a una certa musica di nicchia. In fondo, altri gruppi come i Mumford&Sons gli Alt-J, hanno intrapreso un percorso di ricerca presso queste sonorità, trovando momentaneamente un vastissimo riscontro di pubblico. Momentaneamente certo, perché non è facile ripetersi quando le canzoni devono per forza ritornare sulle tracce di canzoni che vogliono stupire e nello stesso tempo abbracciare ogni tipo di pubblico. Forse un po’ di ricerca sarebbe stato gradito, ma tant’è, volersi ripetere sperando di essere originali non è mai facile, così ne risulta un album da automobile senza troppi pensieri, anche se tutte le figure femminili che lo popolano: da Ophelia a Cleopatra appunto, ci raccontano storie di sogni infranti con la dolcezza e la speranza di un ritorno sulle scene, nel loro piccolo universo. Questo è un disco per cuori dolci e innamorati, o per persona che inseguono la vita attraverso una ballata vista come un manifesto pubblicitario. Si legge un giornale, si sorseggia un caffè, si appendono istantanee quotidiane e poi si ricomincia il lavoro dimenticando il notiziario appena sentito. In fondo, anche la musica a volte, ci fa compagnia senza troppi pensieri.

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CHRIS FORSYTH & THE SOLAR MOTEL BAND
“The Rarity of Experience I”

Questo musicista newyorkese con il suo progetto new-psichedelico iniziato nel 2014, continua nelle sue ricerche soniche, cercando di unire sperimentazione e facilità d’ascolto, o meglio ancora, un insieme di suoi ideali maestri facendone uno stile unico. Certo, il progetto non sembrerebbe facile quando si vorrebbero far confluire in un sound gruppi come i Quicksilver e i Popol Vuh; i Televison e i Dream Syndicate; Neil Young e Lou Reed, ma se la resa finale di questa miscellanea, è la bellezza di queste tracce dove il rock’n’roll insegue ripetutamente  kraut e atmosfere velvettiane, allora, adagiamoci all’ascolto senza paura di perderci. Nel risultato finale si potrebbe, volendo, sottolineare una disomogeneità accentuata fra una traccia e l’altra, ma questo percorso che ricrea un’originale fusion tipica del jazz elettrico degli anni ’70, fa proprio parte della mente dell’eclettico Chris Forsyth, sempre improntato ad aggregare “in una sola moltitudine” tutto il suo repertorio variegato, come se un novello Frank Zappa si fosse impossessato della sua anima. D’altronde, non lo diceva proprio il baffuto chitarrista di Baltimora che l’eccessiva spontaneità diventa alla fine uno stile unico? E che poi alla fine quello che conta è il proprio divertimento? D’accordo, si divertiranno senz’altro, ma qui dentro c’è un lavoro immenso: studiato e ripetuto nei minimi dettagli, perché alla fine saremo noi ascoltatori che troveremo il nostro spazio ludico.

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BON IVER
“22, a Million”

Justin Vernon è una figura poliedrica che, dal suo alter-ego Bon Iver ai Volcano Choir, non smette mai di moltiplicarsi allo specchio, rimanendo se stesso in ogni momento. E’ esemplare proprio la copertina del suo ultimo lavoro: la simbologia del Tao insieme a un’insiemistica di altri simboli, i quali, partendo proprio da quel “22” (due volte 2, o il doppio di “me stesso”) verso il milione che rappresenta la moltitudine del mondo, ritrova proprio una coesistenza degli opposti, come se l’unione fra presente e futuro fosse un’identità legata all’appartenenza fra spirituale e materiale. L’Arte, e la musica come parte di essa, rappresentano la capacità di sintetizzare il mistero dell’energia che ci ritroviamo intorno, per non dire dentro, come se dalla nascita alla morte il nostro percorso dovesse apprendere ogni volta quell’esperienza necessaria per incontrare realmente l’altrove. Ecco che ogni traccia di questo album (dai titoli esplicativi fatti anch’essi di altri simboli), riproducesse la voce dell’elemento primario: il falsetto dell’autore che viene alterato dall’elettronica, come se un’ipotetica sinergia fra uomo e macchina, diventasse alla fine la comunione fra la certezza e l’angelico, fra la terra e il cielo. Tutto il disco è come sospeso in una terra di mezzo dove tutti gli elementi girano intorno a una cosmologia di sensazioni. Lo sdoppiamento della voce è un ulteriore tassello verso una lenta destrutturazione, prima della musica stessa e poi del mistero che si nasconde dietro al miracolo delle parole: un altro “dolcissimo impatto” fra degli opposti che, se accostati delicatamente, generano altri miracoli. I celeberrimi “mostri” generati dal sonno della ragione, qui sono delle beatitudini vissute come il trionfo dell’intelligenza come matrice della verità ultima.
Stiamo volando alto? Nient’affatto… sono solo emozioni, soltanto emozioni.

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BLUES PILLS
“Lady in Gold”

Dopo il successo dell’anno scorso, nessuno si aspettava che questi ragazzi ritornassero in piena forma, con un secondo disco così straboccante di vitalità, e soprattutto con tutta una serie di brani per niente banali. Qualcuno potrebbe obbiettare che sono troppo derivativi  dagli stilemi di un rock classico, troppo etichettatile ad un certo periodo storico; può darsi, però il loro sound è così spumeggiante e sincero che ogni dubbio viene lasciato alle spalle. Non è certo musica del futuro, anzi… ma chissenefrega! Se da ogni solco emerge questa voglia di vivere, di suonare, di gridare al mondo tutta l’energia che dei ragazzi hanno dentro, allora gli appassionati di questo genere non possono che farsi brillare gli occhi. Inoltre la vocalist Elin Larsson dimostra anche questa volta tutte le sue capacità, perché riesce a far emergere tutto il calore dell’anima, attraverso le sfumature della sua voce. D’altronde i debiti verso Janis Joplin o Grace Slick sono evidenti, ma proprio per questo la sua bravura ci riporta alla fine dei sixties come se quello che è considerato a tutti gli effetti un apogeo, fosse a questo punto non tanto una nostalgia ma un nuovo punto di partenza per una nuova resurrezione.
In fondo il rock’n’roll è musica semplice: nata come una ribellione, o meglio, come una rivoluzione giovanile contro le ossessioni di un sistema puritano fino alla noia, riesce ogni volta a crearti un mondo dove non esiste un’età per invecchiare. Tutto è eternamente presente e soltanto chi ci crede farà parte di questa utopia… il resto, lo lasceremo ai cosiddetti “normali”. A noi basta poco. Poco? Se lo dite voi…

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NEIL YOUNG
“Earth”

Questo nuovo lavoro di Neil Young più che un album è un’esperienza: un disco dal vivo in cui sono state sovraincisi tutta una serie di rumori, i quali, vogliono ricordare l’importanza della natura verso tutti noi. I “rumori” sono voci di animali che, fra una traccia e l’altra, fanno da collante per un ipotetico concept. Forse, fanno un po’ sorridere, come se un allegra fattoria, portasse in giro il suo circo itinerante per denunciare gli orrori della nostra società, però il messaggio è esplicito come la scaletta scelta: tutta una serie di brani dedicati a questo tema e tratti dall’immenso repertorio di questo immenso artista. Brani acustici e furore elettrico alternati con sapienza curiosa per imbastire un ideale racconto che non vuole essere favola, ma una storia narrante dedicata a chi la vuole ascoltare. La bellezza e la curiosità è proprio questa, l’aver attinto dai suoi stati d’animo canzoni dimenticate  insieme ad altre più note, per allestire una scaletta alternativa di notevole spessore: Mother Earth (Natural Anthem) – Seed Justice – My Country Home – The Monsanto Years – Western Hero – Vampire Blues – Hippie Dream – After the Gold Rush – Human Highway – Big Box – People Want to Hear About Love – Wolf Moon – Love & Only Love.
Anche i suoi concerti dal vivo del tour di quest’anno (io l’ho visto a Milano) sono stati molto intensi e proprio per tutti i gusti, visto che si è proposto con degli intro acustici, per poi proseguire con un country sferzante fino all’apoteosi elettrica e l’aggiunta di altri capolavori. Pezzi dilatati fino all’accensione al cielo e in cui la band che l’accompagnava non ha sfigurato per niente, anzi, non ha fatto rimpiangere gli amati Crazy Horse. La “Promise of the Real” in cui tra l’altro, militano due figli dei Willie Nelson (che sul palco milanese ha fatto anche una comparsata), si è rivelata eccezionale soprattutto per il dinamismo e la sincronia con il leader che sembrava un ragazzino in mezzo ai ragazzini. Grande, grande, grande… come a dire ricordando un vecchio refrain: gigante, pensaci tu !!!

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MONOMYTH
“Exo”

Questa band olandese conclude con questo album una trilogia iniziata nel 2013 e poi proseguita nel 2014, con uno stile essenzialmente strumentale, il quale, ricorda vagamente le atmosfere di Vangelis, ma decisamente più elettriche e ritmate per sfociare in un progressive-kraut-rock vicino ad uno  space molto accattivante e coinvolgente. E’ chiaro che la matrice con influenze Hawkwind e Pink Floyd ha preso via via una strada propria, per inseguire il sogno epico relativo all’eroe che infrange tutte le barriere, per raggiungere il Sacro Graal della redenzione e salvare tutta l’umanità. In fondo, le narrazioni nordiche riecheggiano sempre il mito del superuomo che fronteggia tutto e tutti, quasi a ribadire che la gente comune ha sempre bisogno di una guida per arrivare all’illuminazione.
Exo, dal greco antico significa “al di fuori”,  ed è proprio al di là che bisogna guardare per capire il fluire della materia. Ma è proprio il magna sonoro che trascina nella sua corrente delle emozioni rituali, a ricordarti che il tempo, non è una linea retta verso l’immensità, ma un cerchio dove tutto si può congiungere per ritrovare se stessi. Non so se vi ricordate il monolito di “2001 odissea dello spazzio” di Kubrick, ecco, questa potrebbe essere la sua seconda colonna sonora ideale, perché l’idea che qualcosa possa condurre l’umanità verso l’illusione di un viaggio oltre le nostre conoscenze, è da sempre stato il desiderio di ogni scienziato; ma alla fine l’uomo riemerge per consapevolezza, quasi a ribadire che il paese delle meraviglie è il fondo la nostra creatività.

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FIL BO RIVA
“If You’re Right, It’s Alright”

Questo nome strano è lo pseudonimo di Filippo Bonamici, nato a Roma, cresciuto a Dublino e trasferitosi poi a Berlino per inseguire il suo itinerario artistico. La miscela fatta di folk-pop-soul & inflessioni cantautori, tali da coniugare le sue diversificate origini, risulta di un’originalità sorprendente a tal punto che sentiremo molto parlare di lui. La sua è una voce cavernosa, ma non eccessivamente pesante, perché risulta molto evocativa, potente e viscerale quanto basta per trascinare nella poesia delle sue narrazioni. Nato nelle periferie, cresciuto  nelle strade come un busker e adattandosi ad ogni situazione, riesce con la tenacia a farsi notare fino alla pubblicazione di questo EP, che spiazza per la qualità che si respira. Ogni interpretazione coniuga la forte espressività delle sue liriche con un cantato che ricorda i grandi vicini a questo genere: Ton Waits, Johnny Cash, Brad Roberts, Fin Genail e Mark Lanegan, tanto per citare alcuni artisti con un voce così riconoscibile. Poi è chiaro, sarà il prosieguo della sua carriera, che ci dirà se il buongiorno si vede dal mattino. Le sue storie, fatte di angosce e di incertezze per inseguire un sogno, sono alla fine le speranze di un giovane dei nostri tempi, il quale deve prendere a morsi il futuro e non mollarlo mai, perché chi si arrende è perduto, e per non morire nella banalità di questo presente troppo alterato, bisogna urlare, magari in maniera intonata, magari in maniera melodica, ma sempre con la consapevolezza di avere una meta. Qualcuno ha detto che il blues è un regalo che il diavolo si è lasciato scappare subito assimilato dall’umanità, e forse, proprio un prodotto dell’inferno poteva trascinarsi fino alle porte del paradiso, perché il cielo non esisterebbe senza il fuoco della nostra origine.

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BLACK MOUNTAIN
“IV”

Giunti al loro quarto lavoro incorniciato nel titolo, tanto per sottolineare la matrice anni ’70 rivisitata anche nella copertina, questo quintetto canadese riesce finalmente a ritrovare un sound, che nei loro tre album precedenti, era troppo derivativo dalle influenze Led Zeppelin o Black Sabbath. Questa volta azzeccano il colpo; non tanto perché non mi erano piaciuti prima di questo interessante progetto (molto coinvolgente era stato “In the Future” del 2008: un capolavoro contenente tutte la quintessenza di ogni sorgente musicale), ma, perché sono risultati più credibili, magari meno potenti, però, più originali.
Le chitarre si lasciano alle spalle i pesanti riff del passato, per un discorso più fluido e armonico, dilatando i pezzi come suite contenenti una trama collegata al futuro prossimo venturo. L’alternanza delle voci della dolcissima Amber Webber e di Stephen McBean, risultano decisamente positivi per l’interpretazione corale, come se il dialogo appartenente a qualcuno venuto prima di loro, si trasferisse finalmente nelle corde vocali di chi ricerca la spontaneità e la concretezza, la volontà e la poesia di un respiro più ampio. Ogni fraseggio trova il suo equilibrio alternando molto bene le sequenze melodiche, con la forza dei ritmi i quali non forzano mai il colpo, ma si mantengono intorno al tessuto musicale senza essere disturbanti. Il risultato dell’insieme è piacevolissimo, riuscendo a trasferire in un solo pianeta in ebollizione il rock, lo space, lo stoner e intromissioni floydiane, per confluire in una melodia mai banale, via via sempre più accattivante, anche perché l’album risulta in progressione sempre all’altezza e si conclude alla grande. In fondo, quando la fantascienza si può racchiudere nei solchi di una canzone, anche le nostre giornate sembreranno più positive. Tra l’altro, li ho visti al Magnolia a Milano dove hanno fatto un ottimo concerto. Complimenti!

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Lo direi ogni volta: se la musica fosse veramente un insieme di piatti del giorno, quanti menù variopinti colorerebbero la nostra tavola; pronti a gustarla nel migliore dei modi così come l’ascoltiamo in ogni momento delle nostre giornate!
Alla prossima puntata…

Il Barman del Club

35 Comments on “PILLOLE DI SALAME – musica da gustare

  1. Non trovo giusto che per avere chiuso il bar ora tu ci voglia ubbrri … noo azzero tutto..grazie per questa full immersion di cui conosco solo il lavoro di Neil Young e Fil Bo Riva di cui avevo letto ottime recensioni.
    Sherasalamelecchi

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    • era un modo di dire prima dell’avvento degli anni 2000, quando si pensava ad un futuro prossimo venturo dove tutto sarebbe stato ridotto in pillole… Però (c’è sempre un però) ridurre a pillole anche il salame, sarebbe stato davvero troppo… 🙂

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      • Guarda davvero.. me la.ricordo sta cosa…
        Se mai dovesse avvenire io vado su marte… vuoi mettere il piacere di una bella bistecca!! O di qualsiasi altra.cosa se uno è vegetariano!!!

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  2. Nonostante ciascuno dei gruppi indicati sia di fatto molto legato a cose del passato, come ben indichi nell’articolo, che dire… bella scelta e comunque in generale ci sono innovazioni. Hai proprio ragione quando dici che la musica se è bella e non segue una moda, ma cerca la sperimentazione diventa eterna.
    Bell’articolo!

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    • difficile trovare innovazione in questi anni confusi, rimane giustamente la sperimentazione o la contaminazione per raggiungere nuovi traguardi. Forse si pubblica troppo e si fa fatica ad ascoltare veramente tutto. E’ risorto dalle ceneri l’underground ma dall’altra parte sta morendo la programmazione di un disco inteso come produzione nei minimi dettagli. Il lavoro delle case discografiche si è ridotto al puro commercio, non che non lo facessero anche prima, però almeno un “prodotto” era un prodotto serio, e dal successo di un album ci si poteva finanziare quello difficile: quello che poi, col tempo, sarebbe stato riconosciuto come un capolavoro.

      Piace a 2 people

      • …forse sono cambiati i tempi, forse è cambiato anche il pubblico che ascolta, forse le arti figurative sono diventate di più e più articolate. In fondo dal secondo dopoguerra, si è dovuto – diciamo così – riempire un vuoto di musica. Gli spunti sono tanti.

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  3. Ho idea che non intendiamo la parola allo stesso modo ma il nostro scenario culturale è ormai costituito quasi solamente di conoscenze fossili e anche noi ci stiamo gradatamente sgretolando. Un brindisi Barman.

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  4. La tua cultura musicale lascia a bocca aperta. Riesci a offrire sempre nuovi e interessanti spunti di riflessione, insieme ad approfondimenti documentati e accattivanti. Dovrò prendere nota anche di questo post.
    😉

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  5. quando ti vengo a trovare so già che me ne andrò arricchito, del resto la musica ci accomuna. Grazie di questo splendido e onirico viaggio. Ciao

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