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Concludiamo questa carrellata di ottimi album pubblicati nel 2016, con quelli da mordere, sia nel bene che nel male, perché ognuno di noi ha la sua reazione di fronte al proprio credo. In fondo, la musica è una comunione vissuta intensamente, come tutta l’eucarestia che precede il rito dell’ascolto: una celebrazione che inizia dal corpo fino al raggiungimento dello spirito. Ma la messa non finisce con il segno della croce, continua imperterrita, in ogni momento della giornata, e non si stanca mai d’incontrare i nostri stati d’animo: li rigenera, li porta al vero miracolo degno di esser ricordato.
Solo una curiosità: il titolo di questa rubrica era riferito a un ricordo della mia adolescenza, in cui, mi è rimasta in mente la sequenza di un film di fantascienza molto ironico, dove, si anticipava l’avvento degli anni 2000 con un cibo sostituito dalle pillole. La trovata stava nel fatto che il protagonista ad un certo punto pronunciava la frase: “oggi ho voglia di qualcosa di nostrano, mi prendo delle pillole di salame”. Non mi ricordo il titolo di questa pellicola ma non importa, non fateci caso, ognuno di noi porta dentro di sé i suoi ricordi nei cassetti della memoria, anche i più stupidi.

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EARTHLESS / HARSH TOKE
“”Earthless – Harsh Toke”

Questi due gruppi votati allo psycho-stoner da sballo in salsa cosmologica, con la passione per le cavalcate lisergiche inacidite fino allo stremo, hanno deciso di mettersi insieme non tanto perché l’unione fa la forza, ma perché il tessuto stilistico che le accomuna, risulta aumentato all’ennesima potenza. I primi, ormai veterani di San Diego e della costa ovest, fanno praticamente da incipit ai secondi: emergenti, spumeggianti di vitalità, variopinti, e pronti ad accettare il testimone di un genere musicale sempre in  fibrillazione. Non è casuale che il chitarrista degli Harsch Toke: “Justin “Figgy” Figueroa sta diventando una sorta di guru della new-psichedelia californiana. Due tracce: una in appannaggio dell’altra, tanto per arrivare al minutaggio che le deve rispecchiare. E mentre la prima è sostanzialmente un’apripista per la seconda, la seconda appunto, è un’esplosione lisergica degna della migliore tradizione, perché l’aria che si respira in queste terre, sarà sempre uno sballo decisamente accattivante.

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SWANS
“The Glowing Man”

Questo terzo capitolo incarnato nella rinascita dei “cigni” di Michael Gira, rappresenta la conclusione di una trilogia da cui è difficile uscirne vivi, perché il loro mondo è sempre un universo capovolto e oscuro, dove ogni forma di redenzione rappresenta l’entrata in un nuovo inferno. Non c’è scelta, se entri da questa porta, non potrai uscirne più. Pezzi dilatati fino allo stremo, accordi ripetuti fino allo sfinimento, canzoni che stordiscono e che ossessivamente continuano incessanti, fregandosene dell’ascoltatore: perché lo ripeto, questo “personaggio incandescente” è talmente ostico che alla fine finisce per piacere, come se avessi una pistola puntata alla testa. Ma è sempre così, e alla fine nella costrizione si è innamorati come nella sindrome di Stoccolma, pronti ad accettare qualsiasi maltrattamento.
Folk industrial, noise-rock, ballate allucinate in cui lo stesso cantautore sembra il protagonista di un film horror pronto ad aggredirvi. Una favola nera, incastonata in una realtà ancora più negativa di quello che vediamo, e non c’è una terra di mezzo: o stai da una parte o dall’altra, senza speranze.

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WOVENHAND
“Star Treatment”

Non lo nascondo, per questo artista: David Eugene Edwards, prima leader dei Sixteen Horsepower e poi depositario del progetto Wovenhand, nutro una venerazione particolare. Ho a casa tutto quello che può ricondurre a lui e ne ho parlato tantissimo sulle pagine di questo blog. Questo suo ultimo lavoro non fa altro che riproporre il suo stile potente e delirante, riconducibile alle sue origini derivate dalla madre indiana e dal padre sacerdote protestante. I suo testi sono infarciti da una sua personale riletture della bibbia, e i suoi anatemi sono degli strali lanciati verso un’umanità corrotta sull’orlo dell’apocalisse. Chiaramente, per uno come me che lo conosce bene, lo avrebbe voluto con delle idee nuove, magari vicine ad una ricerca particolare per non sentirlo ripetere cose già incise, e proprio per questo lo consiglio a chi non lo ha ancora ascoltato. Il suo è un rock potente e viscerale, trascinante e forsennato, sempre in equilibrio fra pentimento e dannazione, in cui, le pratiche sciamaniche  utilizzano la musica come mezzo espressivo, elevandolo a elemento creativo visionario. In fondo, i suoi epiteti, non sono altro che cavalcate verso la rigenerazione della vita come se un nuovo messia si fosse travestito da cowboy.

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MOGWAI
“Atomic”

Colonna sonora del documentario: Storyville – Atomic: Living in Dread and Promise dedicato all’anniversario della tragedia di Hiroshima, questo disco dimostra come il gruppo scozzese sia molto bravo a costruire colonne sonore veramente efficaci, e di come le movenze musicali siamo perfettamente in simbiosi con le immagini. Questo lavoro lo dimostra ampiamente, riflettendo la loro concezione del post-rock: un progressive molto godibile e mai banale, incentrato nella immedesimazione fra musica e concezione multimediale. Il loro pregio è quello di creare atmosfere di un equilibrio sottilissimo, riuscendo, oltre ad emozionare, a mantenere in sospensione l’attesa dell’ascoltatore. La stessa colonna sonora del serial francese Les Revenants è un esempio lampante di come una sequenza di note possa coinvolgere lo spettatore in maniera totale. Ma nel caso del documentario in oggetto, i Mogwai vanno addirittura oltre, e s’inseriscono a pieno titolo nella concezione di professionisti capaci d’interagire, non come semplici accompagnatori di un film, ma come parte integrante di un prodotto ideato per essere qualcosa che deve andare oltre al messaggio che contiene.

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GOAT
“Requiem”

Questo ensamble svedese continua nella sua ricerca di sonorità etniche, cercando di scavare dentro al mistero ancestrale delle culture native. Fondamentalmente, a mio avviso, sono state una delle sorprese più belle di questi ultimi anni, e anche di loro ho ampiamente parlato in questo blog. Questo loro terzo disco però non riesce a sorprendere come gli altri due, e a primo avviso sembrerebbe abbia preso le idee scartate dei primi lavori cercando di concepire un nuovo prodotto accettabile. E’ sostanzialmente un po’ discontinuo, anche se riesce sempre ad ammaliare e a coinvolgere. L’ibrido che funzionava a meraviglia, in questo caso, risulta troppo derivativo dalle influenze che a voluto ricercare, come se fossero delle deboli copie degli originali, mancando in quello che li aveva resi unici prima di questo Requiem, e cioè, proprio quella contaminazione fra etnica e funky-rock più occidentale, fra suoni nativi e tradizione nordica. Rimangono comunque un gruppo da seguire perché un passo falso non inciderà sul loro cammino futuro, perché nonostante tutto anche dentro a queste tracce ci sono dei gioiellini degni di essere ascoltati come esempio di estesa creatività, e le loro maschere, non sono altro che l’esorcizzazione delle nostre paure.

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BOMBINO
“Azel”

Azel è il nome di un piccolo villaggio del Niger che in lingua Tamasheq  vuol dire “ancoraggio”, “nascita”, ribadendo con il linguaggio della musica, come le origini di un sound e della stessa vita siano sempre legate al suolo della propria terra. Ormai questo “bambino” che di nome fa Omara Moctar, ne ha fatta di strada: dimostrando a pieno titolo che l’etichetta di Hendrix del deserto, non era il solito appellativo dato per una banale associazione d’idee come si fa quando si ascolta un virtuoso chitarrista, ma una realtà vista e ascoltata a tutti gli effetti. Io però volevo sottolineare che la sua bravura, non è tanto in una classe unica o nella straordinaria padronanza del suo strumento, ma risiede soprattutto nella pratica originalissima delle sue tradizioni, che vuole riproporre senza alterare la base delle loro origini (da qui il titolo dell’album), arricchendole di quell’elettricità necessaria per aumentare la forza ritmica e la potente espressività naturale. Non solo: cantare le difficoltà del suo popolo o i ribelli della sua etnia, è proprio come scrivere un poema epico sui Tuareg e su tutte le loro traversie, perché i cantastorie moderni, si possono, senza paura di essere sacrileghi, paragonare ai vari Omero che la civiltà ci ha proposto. In fondo, se la poesia era decantare le gesta di antichi guerrieri come autentici protagonisti della Storia, le variazioni moderne della musica non fanno altro che riproporre le gesta di anonimi combattenti, sempre in prima linea nella quotidianità, anche se al posto dei grattacieli, ci sono le sabbie del Sahara.

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KEVIN MORBY
“Singing Saw”

Quel genere musicale ormai denominato “Americana”, giusto per non ricadere sempre nell’etichetta o nei vari sottogeneri attribuiti al folk, riesce sempre a stupire per come riesce a reinventarsi attraverso questi storyteller, i quali, ogni volta cercano strade nuove per raccontarsi. Il bassista degli Woods: Kevin Morby, dopo aver intrapreso una strada tutta sua, sfodera una serie di ballate veramente originali, attraverso sonorità particolari e ricercate, insieme a dei testi che raccontano l’inquietudine di questa “apparente normalità”, sempre camuffata da coloro che invece reagiscono al primo accenno di reazione della gente comune. Non è casuale che la “sega circolare” del titolo: colei che si ripropone di “cantare” le vicende, è vista proprio come un’ossessione che insegue i protagonisti come un vero incubo alla “nightmare”. In realtà la metafora è racchiusa nel fatto che la “singing saw” è anche un pianoforte verticale, il quale non vuole tagliare gli umani trasformati in alberi, ma cantarli. Ne escono canzoni uniche che, se tra ipotetici noir narrativi e psicodrammi interiori, potrebbero annoverarsi con le classiche murder-ballads della tradizione statunitense, in realtà non fanno altro che raccontare la quotidianità dei nostri giorni.

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PREOCCUPATION
“Preoccupation”

L’anno scorso nei migliori dischi dell’anno, scelsi l’esordio dei Viet Cong, per tutta una serie di ragioni e di sfumature della loro ricerca musicale. In sintesi questi Preoccupation sono sempre loro, e probabilmente il cambio del nome (dovrei accertarmi) è dovuto a una serie di polemiche derivate dall’utilizzo di quel termine, anche politico ma, per me bellissimo, evidentemente disturbante. Ora, non so se Mike Wallace e soci, si sono fatti influenzare del music-business in maniera così radicale, fatto sta che a mio avviso ne escono sminuiti, anche perché questo loro secondo album è davvero convincente, e avere continuato con la loro sigla originaria sarebbe stato un vero colpo sa novanta. Peccato… Ritornando a noi, rischiano di sparire nell’affollato mondo della musica di oggi – nonostante la qualità di questo prodotto, il quale continua nella progressione di un post-punk ritmico e spigoloso, a tratti graffiante e a momenti virtuoso, considerando l’evoluzione di uno shoegaze con variazioni noise, sempre in primo piano. – dovrebbero veramente trovare un equilibrio, soprattutto nel management, perché dopo esser stati paragonati ai Joy Division, dovrebbero crearsi un’identità senza compromessi.
Comunque un buon album.

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JACK O’ THE CLOCK
“Repetitions Of The Old City I”

Per gli appassionati di new-progressive originale e proiettato nelle sperimentazioni degli anni 2000,  questo  nuovo lavoro dell’ensemble americano, appare come una risposta molto convincente verso sonorità decisamente accattivanti. Il loro retroterra derivato dagli studi di Conservatorio, ha assorbito nel corso degli anni elementi jazz che ne hanno accentuato la risposta verso una sperimentazione più moderna. Il repertorio classico infatti, si è arricchito di sfumature rock ,con inserti vicini a un avanguardia che schiaccia l’occhiolino all’ascoltatore per trasportarlo nel loro mondo senza traumi. Come a dire: romanticismo e inserti industrial uniti in un matrimonio sorprendente. Non c’è niente di casuale: ogni tassello è ricomposto per concepire un mosaico dalle diramazioni fluide, le quali, partite da un chamber-pop nato apposta per rispondere ai rumorismi-fuzz, alla fine li riassorbe per ricomporli ridandogli soluzioni armoniche più equilibrate. Il risultato è un prodotto eccellente e per niente ripiegato su se sesso, anzi, l’espansione di ogni traccia composte come delle suite variopinte, fraseggiano per tramutarsi in autentiche sinfonie moderne, all’interno di un discorso teatrale che sottolinea il valore in intellettuale dell’intera opera.

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SONS OF NOEL AND ADRIAN
“Turquoise Purple Pink”

Sempre dentro a territori alla ricerca di sonorità ingarbugliate fra rock-prog-kaut e quant’altro, questo gruppo britannico di Brighton – facente parte del progetto denominato Willkommen Collettive: un esperimento di ricerca verso sonorità nuove a cui hanno aderito molte band di questa città – sfodera  un ultimo album complesso e articolato , dove tutte le denominazioni confluiscono in un calderone unico, alla ricerca di quella risposta che il movimento voleva forgiare come un nuovo marchio. Il risultato è un prodotto altalenante fra vecchio e nuovo, a tratti godibile e in altri momenti meno riuscito. Quello che stupisce in realtà è la vocazione artistica sorprendente, la quale continua a ricercare un sound dalle diramazioni nuove, almeno nelle intenzioni, e proprio per questo andrebbe premiato, giusto per il coraggio che alla fine porterà la scena di questa località, nel giusto panorama che la potrà contraddistinguere. Da tenere d’occhio.

*****

Bene… ho finito questa lunga sequenza di pillole, giusto per circoscrivere un po’ di proposte avvenute quest’anno, prima di assegnare i dovuti riconoscimenti agli album pi meritevoli. Rimane il fatto che tutto può succedere nel mondo della musica, e anche il fatto di morderla o accarezzarla, è un processo mentale che ci appartiene come suoi fruitori. Siamo sempre noi che decidiamo in base alle nostre emozioni, la reazione necessaria per la nostra libertà espressiva, e come tale, sarà sempre l’apoteosi delle nostre aspettative.

Salute ragazzi… un brindisi

il Barman del Club

18 Comments on “PILLOLE DI SALAME – musica da mordere

  1. Tanta, tanta roba che leggerò con calma. Mi è piaciuta la copertina dei Preoccupations e sono contento del cambio di denominazione, giacché Viet Cong mi era sempre sembrato infantile e gratuito per loro e in interviste che ho letto anche loro erano un po’ pentiti della sua non rappresentatività.

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    • Napoleone diceva che quando si commette un errore, bisogna perseverare in tale sbaglio per non evidenziare al nemico la propria fragilità, in modo, che così facendo, tale perseveranza si tramutava in un vantaggio rispetto al consueto modo di pensare. Perché anche da un errore si può in seguito ottenere un riscontro positivo.
      Io personalmente preferivo “Viet Cong”, ma non importa, rimane sempre la musica a darci la risposta definitiva…

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      • Ci sono errori giusti ed errori sbagliati e la Storia arbitra, ugh! C’è sempre voluto qualche concerto, qualche 45 giri, qualche cambio di organico, a volte anche LP prima di trovare il nome giusto. A te Viet Cong piace di più perché risveglia il sessantottino che c’è in te, io invece che sono niùvueiver plaudo il cambio e auguro loro di riuscire a scrivere qualche vera canzone o di trovarsi un proprio suono, cosa anche più difficile. Gli unici modi per avere un’identità, con o senza compromessi (ma quali?).

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  2. La mia classifica 😀

    Sons 10
    Ten 8
    22 – 9
    Zodiac 7
    Kevin 5
    Bombino 10++
    Goaf 6
    Mog 5
    Wov 5
    Swans 5
    Hars 5

    Tutto questo solo per l’ascolto perché come ben sai …non conosco questi gruppi, né sono un’intenditrice.

    E ora un aperitivo, grazie! :)))

    Grazie Barman
    ciao
    .marta

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  3. Un’altra splendida immersione in materiale musicale che, sicuramente, merita: soprattutto perché elargito da mani che lo conoscono bene.
    Ti lascio un caloroso augurio per un sereno natale.
    ^___^

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  4. Infatti; Kevin Morby è stato una bella scoperta per me, come anche Bombino, eccellente. E poi i Woven hand e Harsh Toke e così via. Anche Sons of noel non sono male.
    Ottima scaletta; grazie ancora, Barman.

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  5. Oggi, in questo giorno pre-natalizio, mi sono ritrovato a pranzo tra amici e parenti in un gradevolissimo ristorante di pesce, vicino al Porto Canale di Cesenatico. Aldilà della bella cornice turistica, suggestiva sia per la calda attitudine romagnola, sia per la giornata di sole regalataci dal meteo, mi sono goduto un’occasione conviviale, in cui per ore si è parlato di tante cose, dal cinema, alla tv, alla socialità ed ovviamente alla musica.
    Con la complicità di un comodo tablet, mi sono subito collegato a Word Press e con il placet degli amici presenti ho iniziato a leggere ad alta voce questi tuoi ricchissimi 4 post e sono stato premiato da un riscontro eccezionale!
    Non solo, infatti, la tua gradevole prosa ammaliava gli ascoltatori, ma le tue selezioni hanno scatenato un tripudio di considerazioni e confronti: gli smartphone di alcuni dei presenti erano caldi per via dei modem interni, messi sotto torchio dalle ricerche su YouTube e Vimeo ed alla fine, grazie a te, abbiamo tutti ascoltato gran bella musica, bevendo e mangiando.
    Indipendentemente dal proprio dio o dalla propria credenza, sia essa cristiana o di altri momoteismi o anche soltanto laica ed illuminista, non penso davvero che si possa immaginare un modo più leggiadro di santificare una festa…
    Grazie, Barman, per le tue mescite.

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  6. Pingback: I MIGLIORI DISCHI DEL 2016 per il Sourtoe Cocktail Club – Sourtoe Cocktail Club

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