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Visto che Mark Lanegan non si decide a pubblicare un disco tutto suo; che Nick Cave è lontano dei suoi capolavori che lo rappresentano; che Hugo RaceChris Eckman; Howe Gelb stanno ancora aspettando l’ispirazione giusta per un prossimo album, e che Jesus Acedo o i fratelli Curt e Chris Kirkwood insieme a Derrick Boston, si sono persi nel deserto che hanno decantato per anni; ci pensa Duke Garwood a rappresentare quel sound intriso di blues solitari carichi di polvere e solitudine, di storie individuali che cercano un esilio necessario per non confondersi con la confusione e la violenza  delle metropoli. Non è casuale che il nostro protagonista, partito dal Kent nel sud-est  di Londra, si è lasciato affascinare da queste latitudini particolari, dove il vento  e gli orizzonti riescono a parlare alla gente fino a renderli felici in mezzo a questo silenzio, ed è proprio il silenzio che alla fine si trasforma in voce e in suono, in tessuto narrativo fonte sia di ispirazione, che di annichilamento.

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Duke Garwood è già al suo settimo album, avendo scavato una strada impervia per attraversare sonorità decisamente inconsuete, sempre a metà strada fra uno sperimentalismo blues alla Trout Mack Replica, e  una serie di schegge impazzite, plasmate e ripassate da un ipotetico sciamano in trance. E’ come se si fossero fusi insieme i personaggi di Cormac McCarthy con quelli di Elliot Chaze, in cui, se per uno “oltre il confine” era un viaggio iniziatico attraverso un paesaggio metafisico e spietato, per l’altro, con la consapevolezza che “il proprio angelo ha ali nere”, niente appariva come sembra, generando non solo l’attesa della sconfitta, ma l’aspettativa di un riscatto che non avverrà mai. Probabilmente,  se la letteratura lacera le pieghe della carne affondando nella parola, la narrativa della forma canzone produce una nebbia ipnotica generata dalle note,  dove le tracce dell’esistenza possono rivelarsi anche nei sassi che riflettono il buio nella parte oscura della luna. Cantare la notte è un cercarsi dentro, sparire e riapparire insieme all’altra parte di noi stessi: quella che nascondiamo ogni giorno,  come se il mistero dell’inafferrabile fosse ad un passo da noi, e il deserto, sarebbe lo spazio infinito dove aprirsi definitivamente. In fondo, se negli incroci degli scenari americani il musicista nero vendeva l’anima al diavolo, quasi a creare una contrapposizione, in questo territori dove le strade si perdono in ogni dove,  è proprio il diavolo ha scaricare quell’anima di prima, perché il deserto è paradiso e inferno al tempo stesso: peccato e redenzione sullo stesso cammino. Se Gesù ha incontrato i suoi fantasmi proprio in questi luoghi, allora, niente è casuale.

Poi come sempre durante un cammino, anche solitario, basta un incontro per generare un’amicizia, un legame indissolubile, e questa volta niente demoni a rompere le palle, niente tentazioni a coinvolgere gli sguardi. Nasce così una prolifica collaborazione proprio con Lanegan, con il quale il nostro viaggiatore inglese ha pubblicato nel 2013 “Black Pudding”, accompagnandolo nelle sue ultime tournée. Disco tenebroso quanto bellissimo, a tal punto che la critica lo ha definito il momento più oscuro della discografia di Lanegan e all’opposto, quello più solare della produzione di Garwood: potete quindi immaginare non solo il mondo dove viveva Duke, ma anche gli scenari dove si era perduto (o ritrovato) prima. Anche in questo “Garden of Ashes” l’influenza del più conosciuto Mark si fa sentire, eccome, così come in alcuni pezzi si percepisce l’eco del Cave più notturno, ma sostanzialmente siamo di fronte a un lavoro equilibrato, in cui, canzone dopo canzone, ascoltiamo un rosario a metà fra le oscure visioni delle allucinazioni di oggi, e la probabile riabilitazione di un’umanità perduta: lentamente sussurrato con tinte noir, per aggiungere un po’ di mistero alla catastrofe passata sopra di noi. In fondo, se alla polvere, ora si è sovrapposta la cenere di tutta questa terra bruciata, il giardino che rigoglioso cresceva dentro e intorno a noi, potrà lentamente ricrescere? Probabilmente questa domanda ce la siamo posta tutti, ma questo interprete britannico entra negli meandri di tutte le risposte possibili e ne esce soddisfatto, attraverso una comunicazione strisciante sopra dei nervi scoperti per rigenerare la sua pelle, così come la bellezza delle fioriture che crescevano intorno a noi. Non ci saranno più dei “semi cattivi”, ma delle nuove germinazioni nate intorno al desiderio di un altro futuro.

I territori sono questi: blues lentissimi dall’incedere cupo, gospel stravolti nella loro dinamica e delle ballate dove il folk è una parola mista fra poesia e preghiera. Poi il resto lo fa la voce di Garwood,tenebrosa quanto basta per essere viscerale e ipnotica.
L’autore ci racconta che Garden of Ashes non ha propriamente un significato biblico, perché  l’idea che il mondo al principio fosse il nostro giardino che abbiamo ridotto in cenere, fondamentalmente è ancora un bel posto grazie alla capacità della natura di rigenerarsi, e proprio per questo anche l’umanità, nel caso venisse distrutta, potrà riprendersi come una foresta dopo un incendio. Proprio per questo la musica è l’elemento di congiunzione, e a tal proposito ci dice di cercare delle sonorità che distillino ogni negatività che proviamo in questi tempi confusi perché non abbiamo bisogno di musica arrabbiata: tutti possiamo accendere il televisore per vedere lo spettacolo dell’orrore, ascoltarlo pure dallo stereo sarebbe troppo. D’altronde, ognuno esorcizza il male alla sua maniera e il nostro protagonista lo vuole soffocare con la meditazione del suo essere.

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tutte le foto sono prese dal web

Paul Bowles nel “il Tè del deserto”, ci raccontava di una coppia che per ritrovare se stessa, alla fine si perdeva inesorabilmente. Duke Garwood fa il contrario, perché è proprio dalla perdita che ci dobbiamo concentrare per capire il rinnovamento. Il deserto è pieno di luci soffocanti e dimensioni folli, e al contrario, di ombre inquietanti e notti senza fine, ma una chitarra è già un buon inizio per questo lungo cammino, e una canzone può essere un’altra storia da raccontare, magari una parabola per chi la leggerà nei prossimi duemila anni.
Io spero soltanto che da qualche parte, almeno un bar ci sarà per fare una pausa… mi capite vero ?

il Barman del Club

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Duke Garwood con Mark Lanegan

34 Comments on “DUKE GARWOOD – Garden of Ashes

  1. certo… ma così mi turbi e mi scuoti dentro: sempre grandi !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

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  2. conunque… riferito a Duke Garwood … ascolto e riascolto quell’album da metà febbraio circa e ogni volta mi piace sempre di piu’… “Blu” soprattutto…. 🙂 in Gamba tu e i tuoi mixer…. ciao !!!

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  3. Caro Barman, complimenti per il post, racconti proprio la poetica di D. Garwood.
    Ti chiedo un consiglio: cosa prendere? Io ho Black pudding. Grazie.

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    • quest’ultimo non è male come il precedente “Heavy Love”; quelli precedenti sono molto oscuri e asportabili in base allo stato d’animo del momento. Io penso che quest’artista sia maturato proprio dopo l’incontro con Lanegan, dal 2013 in poi…

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    • Ma noooo ! scrivilo anche tu, non dobbiamo rubarci gli artisti a vicenda, ognuno di noi può definire delle canzoni alla propria maniera ed è giusto scrivere come si pensa. Io sono solo un barman che offre degli ottimi intrugli, ma lo scambio simbolico degli appassionati dev’essere alternativo e vario, proprio come avviene nelle fiere del gusto.
      Aspetto il tuo post: alla tua maniera, con la cultura che ti contraddistingue, e con la tua eccellente sintesi sempre puntuale e intelligente…
      Promesso?

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      • grazie per il tuo incoraggiamento ma questa volta passo. Dopo aver letto il tuo post, scritto da appassionato e con un risultato decisamente positivo non riuscirei a scrivere di meglio e quando passa l’ispirazione anche per scrivere su artisti in un blog di nicchia come il mio sai meglio di me che è meglio lasciar perdere. Meglio gustarsi un buon bicchiere di vino (come ho fatto ieri sera: assaporando un cabernet merlot, mentre ascoltavo le canzoni del disco di Duke….). Mettiamola così: semplicemente il tuo post mi ha appagato di più che se l’avessi scritto io! E’ un bellissimo scambio pure questo, non credi? ciao e buona giornata

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  4. Bel post sempre appassionato e ispirato, da intenditore che sei 🙂
    Paurosa la voce roca di Duke Garwood
    Grazie per l’abbinamento giusto… che rimando a stasera. Ora è un pò presto e lo gradirei un attimo alcolico 🙂

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  5. Ecco. Questo è un luogo dove l’ignoranza musicale ha la possibilità di sentirsi veramente… ignorante.
    😀
    Mi abbevero delle tue presentazioni e ascolto Duke Garwood.
    😉

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    • è sempre uno scambio simbolico: ognuno di noi da qualcosa all’altro, reciprocamente; ed è sempre uno scambio costruttivo. Nessuno nasce “imparato” (come si dice), così come i tuoi scritti danno qualcosa agli altri…
      Io servo semplicemente da bere: chiacchierando !
      🙂

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