album 2017 algiers

Quando gli anni 2000 erano considerati la porta che avrebbe lanciato l’umanità verso le frontiere del nuovo millennio, probabilmente, coloro che da sempre avevano vissuto sulla loro pelle le contraddizioni e le disillusioni del presente, si saranno fatti una lunga risata, prima di ricominciare a elencare le denunce verso questa società mascherata di buonismo… e avevano ragione. Crollata come sabbia l’impalcatura di un’insopportabile bugia, si è riversata sopra tutti noi l’epilogo di una crisi figlia di un’immagine distorta in cui ci hanno cresciuto, mascherandola con un ipotetico benessere, sempre a danno delle popolazioni più disagiate, perché se esiste un ricco deve per forza di cose esistere anche un povero, nel senso che la vita dorata di chi sta meglio, è stata da sempre costruita a danno di chi sta peggio. Genocidi, colonialismo, deportazioni, schiavitù, oppressioni, sfruttamento e omissioni della Storia sono lì a dimostrarlo, anche se noi facciamo finta di niente, anche se noi non ci ricordiamo di nulla, anzi… morte agli immigrati! nonostante da millenni abbiamo distrutto le loro terre e devastato le loro risorse, le loro culture, la loro dignità. Ma ci sono gli Algiers a risvegliarci la memoria…

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Il nome del gruppo sembrerebbe strano: nasce da un circuito apparentemente laterale, ma significativo per far esplodere il messaggio contenuto. Non è casuale che il film di Gillo Pontecorvo: “La battagli di Algeri”, è studiato dall’esercito americano per osservare e studiare le tecniche antiterroristiche e antisovversive, proprio come esempio legato intorno a una rivolta cittadina e a tutte le conseguenze di un’eventuale guerriglia urbana. La pellicola del regista italiano, sintetizza ancora oggi un concetto di oppressione, tanto da aver creato proseliti anche al di fuori di un circuito puramente cinematografico, proprio come in questo caso. Non è casuale che Franklin James Fischer, nero, nato ai margini di una delle tante metropoli americano, Atlanta in questo caso, cresciuto a pane e gospel, si reinventa una miscela hard-spirituals contaminata da punk e hip-hop, tanto da aggiungere rabbia e voglia di urlare il suo nome di battaglia: “Algiers”! e dopo il nome, una lunga serie di titoli e testi espliciti che non lasciano scampo, duri, viscerali, estremamente politicizzati, diretti allo scopo… insieme alla musica, tanta musica!

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Il loro omonimo esordio discografico del 2015 è stato come una bomba che ha deflagrato in maniera torrenziale, evidenziando un impeto rivoluzionario deciso a sovvertire tutti i canoni di un’estetica troppo appiattita, nell’orgia di questo presente dove tutto scorre a ritmi sovraesposti. Ma sono i loro ritmi a farci sobbalzare, a focalizzare le istantanee sopra una terra bruciata direttamente proporzionale al potere che l’ha provocata, perché le preghiere che il ragazzo di ieri aveva cantato nelle chiese delle sua adolescenza, ora, sono rivoltate e trasformate per sputare il loro grido di dolore.
“The Underside of Power”, continua là dove questi ragazzi erano rimasti due anni fa, estremizzando l’impeto senza un attimo di pausa, contaminando tutta la produzione con una sovrabbondanza di elettronica, forse a danno della spontaneità, ma con il pensiero sempre rivolto alle loro finalità. I cartelli che stanziano in bell’evidenza nelle aule dei tribunali, non sempre sottolineano la differenza tra un’idea di giustizia e come opera la legge in senso lato, con la conseguenza che il potere riesce a manovrare ogni cosa per i suoi scopi. Ecco che la risposta di chi da secoli subisce queste alterazione della verità, subentra irruente, specialmente se il megafono utilizzato per amplificare questi stati d’animo, è un’estensione del rock’n’roll manipolato e masticato come un urlo tribale, e come un mezzo esplicitamente politico senza mezzi termini.

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Il mondo musicale di oggi si è ammosciato nelle camere di una commercializzazione banalmente esposta, senza una ricerca di qualità come si faceva una volta, perché se il vedere un prodotto è sempre stata la base delle case discografiche, perlomeno, si aveva anche la concezione di costruire un capolavoro con tutti i crismi, investendo massicciamente per raggiungere il massimo risultato possibile. Chi ascoltava musica aveva la possibilità di scegliere su diversi piani qualitativi, riuscendo a concentrarsi dentro a un  percorso a volte difficile, ma dallo spessore in cui intelligenza, bravura e creatività erano alla base della proposta, e come tale si aprivano tutte le più infinite possibilità.
Gli Algiers vorrebbero che gli eventuali fruitori si concentrassero, proprio per estendere un prodotto oltre un concetto d’intrattenimento, perché un impegno militante diventi una base d’eccitazione vera e propria, trasformando l’ascolto in un’esperienza reale, a diretto contatto con la realtà, con quello che esiste e che ci viene nascosto dalle televisioni o dai media ufficiali.

Essendo un gruppo misto, con tre bianchi e un nero: il già citato Franklin alla voce e chitarra, Ryan Mahan al basso, Lee Tesche alla seconda chitarra e Matt Tong alla batteria, riescono a distanziarsi dalle prerogative tipiche della cultura hip hop, miscelando intelligentemente le loro esperienze personali, con tematiche che superano gli stilemi classici dell’invettiva dei rapper, ma al contrario, utilizzando come base il rhythm’n’blues alterato dalla loro energia modernista, ed estremizzando una tradizione che dagli spirituals incontra punk e derive industrial, si rimettono in gioco con una serie di testi veramente particolari, e una serie di ritmi veramente coinvolgenti. Non c’è solo la rabbia, ma anche la spiritualità e un’idea collegata ai lati positivi di tutte le culture minacciate da questi nuovi nazionalismi emergenti. Senza dimenticare chiaramente la loro lotta di classe, però, come ho già detto, essendo una band mista, le trame delle loro storie riescono a bilanciare tutte le prospettive esistenti, creando una solidarietà sorprendente, per niente banale.

Poi come sempre succede, il secondo album dopo il successo del primo, non è mai facile e probabilmente qualche esagerazione nella complessità degli arrangiamenti e nel lavoro di produzione si poteva evitare, ma tant’è, io li preferisco dal vivo senza troppi fronzoli, quando il loro messaggio si amalgama con l’irruenza musicale, risultando efficace e trascinante, nonostante l’intellettualità contenuta, intrisa di sociologia, filosofia, storia e attualità. In tutte le 12 tracce non c’è un attimo di pausa, partendo da Walk Like A Panther, in cui la voce campionata di Fred Hampton, attivista delle Black Panther assassinato nel ’69, s’inserisce proprio per sradicare le bassezze in cui l’odio razziale si nutre per gonfiare una forma di potere, surrogato fin che si vuole; fino all’involuzione di The Cycle / The Spiral: Time to Go Down Slowly dove le porte dell’inferno sono sempre aperte, perché il baratro non è detto che sia un’improvvisa voragine, ma una lenta discesa verso la fine, Il tutto passa per brani incendiari come Cry of the Martyrs;   Animals o Cleveland, in cui una lunga elencazione di morti, porta in primo piano le voci del movimento dei Black Lives Matter, attivissimo sulle barricate della diseguaglianza, riportando alle luce l’altro omicidio del giovane Tamir Rice. Ci sono anche dei momenti di riflessione come in Mne Rieux; Hymn For an Average Man o A Mur Mur. A sign. in cui le vecchie orazioni evangeliche prendono una forma nuova di pianto; o le variazioni sperimentali di Death March, tanto per richiamare episodi in cui band come i Cabaret Voltaire o i Cybotron avevano intrapreso, tra noise e new-wave; così come il post-punk di Plague Yers o lo psyco-soul di Bury Me Standing. In quanto alla title trak, rimane almeno la speranza, dopo tanta denuncia e tante braccia tese.

La letteratura si sa, nella forma canzone potrebbe essere un’arma a doppio taglio, ma i testi di Fischer e la veemenza della band sono un’arma sonora che non vuole uccidere nessuno, ma risvegliare le coscienze intorno a un’esigenza vera che ci appartiene. Qui non si gioca a nascondino, vengono elencati nomi, fatti, luoghi, avvenimenti che tendono a sparire nell’oblio mellifluo delle poltrone vellutate e sopra gli schermi dei reality buffoneschi, Probabilmente, bisognerebbe passare per quelle strade, per quelle periferie, per quegli episodi che si ripetono e non insegnano niente a nessuno. Se sgraniamo a ritroso un rosario per incontrare idealmente in questi brani le figure di Marx, Lenin, Angela Davis, Martin Luther King, Hannah Arendt, Thomas Eliot, Mark Fisher, Michelle Alexander o cittadini comuni come Sandra Bland, Kindra Chapman, Keith Warren e tutti gli “strange fruit” appesi negli alberi d’America, allora, si capisce che la lezione della Storia deve essere letta per capire veramente il significato della parola “libertà”, come bene individuale e collettivo. Quando le visioni dell’Antico Testamento passano per la  Motown e arrivano ai giorni nostri con una potenza sonica devastante e riescono a coniugare in maniera così efficace le loro vibrazioni con l’ineluttabilità dei testi, forse, come ci ricordano gli Algiers, una speranza esiste ancora.

Volevo offrirvi da bere e avevo pensato a un Bronx, ma poi ho detto: troppo banale, qui ci vuole qualcosa di forte, molto forte e un Long Island Ice Tea direi che va meglio per corroborarci un po’ dopo tante denunce.

Alla prossima ragazzi !

il Barman del Club

11 Comments on “ALGIERS – The Underside of Power

  1. al primo impatto risulta saturo di arrangiamenti e di elettronica, per via del produttore Adrian Utley (ex Portishead), ma dopo un po’ di ascolti entra dentro e non ti lascia uscire. Chiaramente, come ho scritto, io li preferisco dal vivo, perché il loro impatto sonoro è veramente trascinante…

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  2. Non li conoscevo…
    Il primo brano è coinvolgente, musicalmente parlando. L’inglese non lo conosco ma leggende il tuo post si intuisce il contenuto.
    Contenuto confermato dal ritmo “rap-blues” dell’ultimo video: splendido!

    Mi piace la cover: un quadro di Hopper senza presenza umana

    Bevo un’acqua tonica, visto i 30° gradi odierni

    grazie Barban
    alla prossima 🙂

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  3. Veramente eccitante questa scoperta, Barman. Nel generale appiattimento della musica contemporanea, questo gruppo brilla alla grande!
    Approfondirò il loro ascolto.
    Complimenti per il tuo post, scritto mirabilmente.

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