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Anchorage

Questa città è fatta di pietra, di sangue e di pesce.
Monti Chugatch a est
a ovest balene e foche.
Non è stato sempre così, perché i ghiacciai
che sono fantasmi di alabastro creano oceani, intagliano la terra
e qui plasmano questa città, col suono.
Nuotano a ritroso nel tempo.


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Una volta una tempesta di terra ribollente schiantò
la strade, squarciò le case.
S’è acquietata ora, ma sotto il cemento
vi è terra rovente, e sopra, aria
che è un altro oceano, dove spiriti che non possiamo vedere
danzano     scherzano     si saziano
di caribù arrosto, e la preghiera continua, si dilata.

Nora e io camminiamo per la Quarta Avenue
e sappiamo che sta accadendo.
Su una panchina del parco vediamo la nonna Arhabascan
di qualcuno, rannicchiata nell’odore di 200 anni
di sangue e piscio, gli occhi chiusi contro qualche oscurità
non immaginata, dov’è sepolta in un dolore in cui niente ha senso.

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Continuiamo a respirare, a camminare, più piano ora,
con le nuvole in vortici nell’aria sopra di noi.
Cosa possiamo dire per comprendere
meglio di quando abbiamo già capito?
Tranne che parlare della sua casa e fare di lei
la nostra storia, sapendo che i sogni
non finiscono qui, a due isolati dall’oceano
dove i nostri cuori ancora s’infrangono sulla riva fangosa.

E penso alla prigione della Sesta Avenue, piena di indiani
e neri, dove Henry raccontò che gli avevano sparato
otto volte di fronte a un negozio di liquori a L.A.
ma quando l’auto filò via, lui si sorprese di essere vivo,
niente buchi di pallottole, ragazzi, e otto cartucce sparse
sul marciapiede intorno a lui.

Tutti risero di questa cosa impossibile,
ma anche di questa verità. Perché chi crederebbe
la storia fantastica e terribile della nostra sopravvivenza
di quelli mai destinati
a sopravvivere?

Joy Harjo

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La donna appesa alla finestra del tredicesimo piano

Lei è la donna appesa alla finestra
del 13° piano. Le sue mani si stringono bianche al
cornicione di cemento del caseggiato.
Penzola dalla finestra del 13° piano nella parte est di Chicago,
con un turbinio di uccelli sopra la testa. Potrebbero
essere un’aureola, o una tempesta di vetri che aspetta di colpirla.

Pensa di tornare libera.

La donna appesa alla finestra del 13° piano
nella parte est di Chicago non è sola.
E’ una madre di famiglia, del piccolo Carlos,
di Margaret, e di Jimmy che è il più grande.
E’ la figlia di sua madre e il figlio di suo padre.
E’ molti brandelli tra i due mariti che ha avuto.
E’ tutte le donne del caseggiato
che la guardano, guardano se stesse.

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Quando era giovane mangiava riso selvatico in piatti
scrostati in calde stanze di legno. Era nel lontano
nord e allora lei era piccola. La cullavano.

Vede il lago Michigan che lambisce le sponde di se stessa.
E’ un vertiginoso buco d’acqua e i ricchi vivono al suo limitare
in alte case di vetro. In certi
punti il lago Michigan parla con voce sommessa,
qui borbotta soltanto e va a cozzare contro l’asfalto. Vede
alti edifici proprio come il suo. Vede altre
donne appese alle finestre dei molti piani
che contano le loro vite nel palmo delle mani
e nel palmo delle mani dei loro figli.

Lei è la donna appesa alla finestra del 13° piano
nel quartiere indiano della città. Il suo ventre è molle
per la nascita dei figli, i jeans consunti le scivolano giù
dai fianchi, e poi dai piedi, e poi dal cuore.
E’ sospesa.

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La donna appesa al 13° piano sente delle voci.
Le arrivando notte quando le luci si
affievoliscono. A volte sono gattini che miagolano e grattano
alla porta, altre sono la voce di sua nonna,
e altre ancora sono giganteschi uomini di luce che le sussurrano
di alzarsi, alzarsi, alzarsi. Ed è allora che vuole
avere un altro bambino a cui aggrapparsi nella notte
per riuscire a ricadere nei sogni.

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E la donna appesa alla finestra del 13° piano
mentre altre voci. Alcune gridano da sotto
di buttarsi, la spingerebbero giù. Altre piangono piano
dai marciapiedi, innalzano bambini come fiori e li accolgono
nel loro abbraccio. Vorrebbero aiutarla, come una di loro
Ma lei è la donna appesa alla finestra del 13°piano,
e sa che è appesa alle proprie dita, alla
pelle, al suo filo di indecisione.

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Pensa a Carlos, a Margaret, a Jimmy.
Pensa a suo padre e a sua madre.
Pensa a tutte le donne che è stata, a tutti
gli uomini. Pensa al colore della sua pelle, e
alle strade di Chicago, e alle cascate e ai pini.
Pensa alle notti di luna, e ai freschi temporali di primavera.
la sua mente vibra come un neon e i bar dei quartieri a nord.
Pensa alle solitudini delle 4 del mattino che l’hanno raggomintolata
come la morte, dissonanti, senza una logica e
splendida conclusione. I suoi denti si scagliano ai bordi.
Vorrebbero parlare.

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La donna è appesa alla finestra del 13° piano e piange la
bellezza perduta della sua vita. Vede il
sole che tramonta a occidente sulla grigia distesa di Chicago.
Pensa di ricordare se stessa in ascolto della sua vita
che si spezza, mentre cade dalla finestra
del 13° piano nella parte est di Chicago, o mentre
si tira su per possedersi di nuovo.

Joy Harjo

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tutte le foto sono prese dal web

La poesia degli indiani d’America, o meglio ancora, dei Nativi d’America (come giustamente preferiscono farsi chiamare), raggiunge spesso vette di lirismo molto interessanti, attraverso questo espressionismo narrativo tipico della cultura anglosassone, soprattutto statunitense. Joy Harjo, nata a Tulsa in Oklahoma nel 1951, diretta discendente per linea paterna del capo creek Manaua, il quale condusse la Red Stick War contro il generale Andrew Jackson agli inizi dell’800, e di madre cherokee, è una voci più rappresentative, non solo del suo gruppo etnico di appartenenza, ma anche nel vasto panorama della letteratura contemporanea.
La raccolta “Un delta nella pelle” curata da Laura Coltelli ed e dita da Passigli, è una splendida retrospettiva della figura di questa importante poeta femminile, in cui il mito, la storia e l’identità del suo popolo, sono alla base di una ricerca costante e appassionata. La tradizione di una cultura orale legata al tipico atteggiamento di un’identità tribale, che gli occidentali non  sono mai riusciti a disperdere, in questo libro, esprime tutto il suo attaccamento alla terra degli avi e a tutte le problematiche di una modernità asfissiante nata da un omicidio di massa, e poi assestatasi nelle ineguaglianze e nelle disparità dei giorni nostri. “…Dunque non una figura pittoresca da museo etnografico, ma affermazione di una complessa identità al di là degli aspetti stereotipati delle proprie radici o scelte di vita. Frammenti di biografia familiare si innestano in un contesto che ripercorre vicende storiche di una conquista al limite dell’etnocidio, dolorosamente depositate nella memoria che cerca tuttavia di aprirsi a uno scarto esistenziale verso la ricomposizione del sé…”

“…Io ho memoria / Nuota nel profondo del sangue / un delta nella pelle…

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26 Comments on “JOY HARJO – Un delta nella pelle

  1. Mi associo a Sherazade… bel post amico mio e grazie per avercelo fatto.

    Le cosiddette “minoranze” hanno tanto da insegnare a noi maggioranza occidentale.

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  2. Ho “divorato” le parole stupende.
    Non conosco nulla di questa realtà che tanto minore non è, considerate la densità emotiva e l’altezza espressiva. Grazie per le perle che regali spesso.
    Per stasera solo un analcolico, devo smaltire… 😉

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  3. queste poesie sono di una bellezza impressionante…grazie per averle fatte conoscere:-)
    mi piacerebbe bere l’acqua di un torrente di montagna, c’è anche questo nel tuo bar?

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