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La prima domanda che dovremmo porci quando un gruppo storico e alternativo dell’industrial-rock britannico, torna dopo ventidue anni di assenza, è il perché di tale scelta e quali sono le motivazioni, gli impulsi e le dinamiche che hanno mosso l’ispirazione e la voglia di comunicare la loro attuale visione del mondo.
La copertina è inquietante: una sala da concerti con un pianoforte sullo sfondo, completamente allo sfacelo, con delle iene che s’aggirano quasi come dei fantasmi fra le rovine… Ebbene, se questa è a loro visione del mondo, girata allusivamente sulla musica o su come le sette note devono porsi negli odierni panorami, forse, la domanda iniziale ha già con questa iconografia la sua risposta.

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Sostanzialmente Graham Cunnington e Paul Jamrozy, non sono mai stati fermi in questi ultimi anni, ma è chiaro che se un’attività iniziata nel 1982, e proseguita fino al 1997 intorno a quella scena che vide i Throbbing Gristle e i Cabaret Voltaire proporsi ad alfieri di una nuova versione della musica, intrisa di rumorismo e performance fuori dal comune, fino alle vette dei teutonici Einstürzende Neubauten, qualcosa ha lasciato nei corpi e nell’anima di questi protagonisti. E’ chiaro, ogni età ha la sua voglia di ribellione, ma non è detto che avere vent’anni o sessanta possa cambiare la visone del mondo, anzi, finito l’entusiasmo che spinge chiunque ad una rivoluzione immaginifica contro le diseguaglianze, ritornare ad incitare le urla per una nuova scia di rimbalzi contro le derive di questo presente, è proprio un rivivere la spinta delle idee che li aveva caratterizzati.

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Probabilmente, la Brexit, l’allarmante disoccupazione, la delusione di una working class e le devianze verso un’aberrazione che sceglie l’immigrato come colpevole di un processo di smarrimento, sono alla base di un ritorno perché le urla e i ritmi si devono sentire, o meglio, è proprio con la musica che il messaggio arriva dritto al cervello, prima che al cuore, come in questo caso. Inoltre, mai come oggi, i tempi e le tematiche coincidono ora come allora, figli di una crisi che non si è mai fermata, e nel suo acuirsi si rivela l’apice e la concretezza della sua involuzione, o meglio, dell’involuzione del mondo, oppure per sottolineare l’affermazione di cui sopra: del cervello.

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L’artista vive e assimila tutte le delusioni e rimane sconcertato, perché ogni idea per cui ha lottato, invece che migliorare, è peggiorata, come se un esercito di automi si sia instaurato nelle menti della gente, lasciandoli inermi, inebetiti di fronte ai teleschermi senza voglia di reagire, o peggio ancora, di cercare il solito capro espiatorio come assoluzione dei propri peccati. Ma se gli anni ’80 e in parte i ’90 lasciavano dei territori vergini per questo tipo di musica e di conseguenza potevano attingere dalla creatività ogni forma di spettacolo, in questi anni 2000 l’esagerata riproposizione di qualsiasi cosa, sembra appiattire anche la generosità e la sincerità di chi è veramente al di sopra della media. Questo lavoro dei Test Dept (abbreviazione del Test del Dipartimento), entra come una lama nella mente di un ascoltatore attento e lascia il segno, mentre al contrario, sfugge via senza fermarsi dalla a-normalità delle banalità quotidiane di chi ascolta solo canzonette; ognuno fa le sue scelte, ognuno sceglie come vivere  (o suicidarsi) e come morire. Ma è meglio vivere da leoni o da pecore? Lo so, è il solito ritornello e la solita affermazione che non porta da nessuna parte, se non nelle paludi degli slogan pronunciati furbescamente dai detentori del potere in cerca di eroi da sacrificare. Ce ne fossero davvero di leoni. Allora, ascoltiamoci un po’ di musica…

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tutte le foto sono prese dal web

Il disco riprende formalmente da dove i nostri eroi si erano fermati, da quel formato di industrial-rock calato a pieno titolo in una techno-house infarcita di ritmi e controritmi in cui convergono episodi rumoristici e stilistici del loro genere. I testi sono espliciti, diretti, estremamente politicizzati, ma riflettono la rabbia e la denuncia di un’attualità fuori controllo. Ogni traccia è una sorta di trance ipnotica dove si amalgamano recitati, cantati, campionamenti e percussioni, idealmente suonati in una fabbrica abbandonata, non tanto per rievocare l’iconografia del gruppo, ma per essere vicini al teatro dei loro territori.

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Un ascolto superficiale potrebbe lasciare indifferenti, perché non si ripropone niente di nuovo, anzi, si rischia di passare attraverso affermazioni frettolose, in cui, la visione dell’insieme non convince appieno (è capitato anche a me). Se invece ci soffermiamo, non tanto nella ricerca del messaggio, ma nella voglia di rimettersi in gioco solamente perché non se ne può più dell’indifferenza o di una finta sbadataggine, allora, l’esposizione acquista una valenza diversa, o perlomeno, si percepisce il desiderio e la susseguente nevrosi di potersi esporre prima di raggiungere il classico punto di non ritorno.

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Purtroppo la Storia ci ha insegnato troppe volte come si andrebbe a finire se l’impegno venisse dimenticato, o sottovalutato. Non c’è niente da fare: bisogna farsi sentire, in qualsiasi maniera, perché mollare la presa in questo preciso momento può essere davvero pericoloso. Se questi ragazzi, o vecchietti (fate voi), hanno deciso di alzare di nuovo la voce, per non essere inghiottiti dal buio di un lunghissimo tunnel, vanno ascoltati attentamente per evitare di disperdere il seme originario messo in luce nella gioventù. Non si può lasciare che tutto finisca come nella raffigurazione della foto, non bisogna abbandonare la bellezza della musica intorno alla decadenza e alle iene che ci vivono intorno, bisogna ribellarsi.

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Questa foto mi fa venire in mente un racconto di fantascienza, in cui, in una società distopica dove erano bandite le emozioni, degli operai durante un opera di ristrutturazione, trovarono un pianoforte abbandonato: strumento che loro non sapevano minimamente cosa fosse ; e così, sfiorando casualmente i suoi tasti e ascoltando un suono che non avevano mai sentito, iniziarono a piangere, a provare brividi bellissimi, a reagire positivamente ad ogni ascolto, ad ogni momento, perché nella loro anima rinacquero anni perduti da imposizioni totalitarie.
Da una nota, da un tocco di poesia, può nascere una rivoluzione? A questa domanda non oso rispondere per non perdermi nell’illusione di un’utopia, posso solamente dire che la musica è uno strumento straordinario per proporre un’idea, per questo non bisogna aver paura di nascondersi.  Salute ragazzi, alla prossima !

il Barman del Club

29 Comments on “TEST DEPT – Disturbance

  1. Solo una piccolissima considerazione di carattere generale (per la tua analisi tecnica non ho i numeri sei ‘troppo’ ), Credo che l età non cambi la visione del mondo ma certamente la sua percezione e inevitabilmente condizioni le modalità delle azioni.
    Buonanotte e soprattutto una bella serena domenica.

    Shera

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  2. Lo sto trovando, a suo modo, piacevole e rassicurante (davvero). Ma è questo che dovrebbe essere?
    La risposta è scontata.
    Mi sfugge se sono parodistici o se sono invece seri (davvero 2).
    Bello il tuo richiamo al racconto di fantascienza.
    Buona domenica.

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    • io penso che ci siano tutte e due le cose insieme, poi bisognerebbe analizzare i testi in tutte le sue sfumature, però, conoscendo lo humor britannico e la loro naturale propensione a non essere condizionati da alcunché, le eventuali invettive hanno nello stesso tempo un retrogusto ironico. Purtroppo correndo sempre dietro al tempo, avrei voluto analizzare traccia per traccia seguendo proprio le parole (oltre che ai ritmi) per fare un post più completo, ma tant’è, accontentiamoci (o accontentatevi) di quel poco che riesco a fare. L’incipit è stato dato, il resto è una bella bevuta con in sottofondo tanta di quella musica da riempirci la vita. Buona domenica anche a te (!)

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      • tra l’altro i Test Dept hanno spesso collaborato con Kris Canavan: un visual-performer, in cui le sue esibizioni molto disturbanti, racchiudono un’ironia di fondo che lascia sempre il dubbio da che parte stia, nel senso che il messaggio deve far riflettere e nello stesso tempo sorridere. E’ l’ambivalenza delle cose, in cui ognuno di noi trova la sua risposta, almeno si spera…

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  3. Kris Canavan. No, non fa per me. Quella degradazione del corpo mi è sempre sembrata una facile scorciatoia per creare disagio nello spettatore senza sforzarsi di far pensare veramente.
    Un po’ come lo splatter. Ti prende alla bocca dello stomaco ma l’arte, nella mia opinione, dovrebbe sempre rivolgersi ad altri organi. Ma tu, barman, fai già tantissimo (davvero 3). Quindi alla salute.

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  4. Credo di essere vecchia per questa roba. Ascoltando le tracce che hai suggerito, mi sono sentita come mia nonna quando mi ha sorpresa ad ascoltare Immigrant song dei Led Zeppelin a palla, nella mia camera… discreto tempo fa. Alla prossima, barman! 😉

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