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Allora, andiamo indietro nel tempo, quando con il nome Giant Sand, il nostro eroe iniziò un’avventura particolare, in cui, punk, alternative-country, ballads e indie-rock, crearono una miscela particolare, seminando capolavori e sperimentazioni sempre a metà fra  tradizione e innovazione. Poi, quando i suoi due fidati compari: Joey Burns e John Convertino, fondarono i Calexico, giganteggiando con ritmi latini e desert-rock un po’ in tutto il mondo, rimasto da solo, fece morire e risorgere molte volte il marchio da lui creato, alternando lavori solisti ad album con un’infinita serie di nuovi membri.

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Chiaramente, l’ispirazione iniziale, si sciolse ben presto all’interno di uno stile tutto suo, somigliante a metà fra un Tom Waits sonnacchioso  e  un cow-boy ubriaco, dove, questo storyteller sempre attivo dalle parti di Tucson in Arizona, furbescamente riuscì a condire bene, collaborando prima con un ensemble gospel, poi con un’orchestra mariachi, poi ancora con virtuosi tzigani  o con specialisti di cumbia colombiana, e altri ancora, raggruppando ospiti e session-man di ogni tipo, anche se le melodie erano sempre le solite, variegate intorno al suo modo di essere. D’altronde, lo stile è sempre lo stile, ed è giusto che fosse così. Di conseguenza, dopo averlo seguito per anni, lo lasciai al suo destino perché lo ritenni troppo ripetitivo, nonostante la sue storie potessero essere anche le nostre storie: quotidiane divagazioni del nostro presente, legate a una poesia giornaliera, per quanto personale.

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Ma come sempre succede, la curiosità porta a ritornare sui propri passi e così mi sono convinto ad ascoltarlo nuovamente, giusto per salutarlo e berci un bicchiere insieme, che non fa mai male. Non è casuale che le atmosfere di questo “Gathered” sono quelle di un locale vicino all’ora di chiusura nel pieno della notte, quando all’interno sono rimasti i soliti ultimi ubriaconi, dediti all’ultimo giro mentre il pianista abbozza gli ultimi accordi insieme alla bella di turno, in cerca di un tocco romantico per concludere la serata. Le linee melodiche si lasciano andare intorno a fraseggi jazzati e arpeggi da chansonnier americano, un po folk-singer e un po’ poeta, mentre si tiene vivo con un whiskey doppio. Così, mentre le varie tracce si danno il cambio, finisce che l’album piace e ammalia, forse perché ci si sente trasportati all’interno di questo vecchio club, anche noi nostalgici protagonisti di un viaggio al termine della notte con i pochi intimi rimasti. Tutto è molto rilassato, lento, dilatato, dolce, positivo, nonostante una latente malinconia faccia  da capolino qua e là fra una chitarra scordata e un sussurro femminile. Ma non c’è tristezza,  esiste la consapevolezza di una gioia interiore delle piccole cose, come aspettare l’alba con un bicchiere in mano e salutarla con un brindisi, per il giorno che verrà. In fondo, se ci ritroviamo a cantare insieme, fra una melodia e un bourbon come si deve, il finale non può che essere quello più bello, ed io ve lo posso garantire, un barman intelligente, in queste situazioni, tirerà fuori sempre la bottiglia migliore, per offrirla ai clienti più veri.

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Howe Gelb sarà anche un bel furbacchione, ma in questo caso l’ho sentito sincero, autentico, anche lui vero come gli astanti radunati intorno a lui: Fernando Vacas, Kira Skov, i Lost Brothers, Pieta Brown, Tommy Larkins, Andrew Collberg, Thøger Lund, M. Ward, l’ottuagenaria Anna Karina (attrice simbolo della nouvelle vague) e la giovanissima figlia Talula. Collabori d’eccezione e compagni di sbronze allo stesso tempo, legati da un incedere in cui l’anima svela il suo lato oscuro, quello non negativo, quello che ci regala tutta la sua intimità e la sua nascosta dolcezza: vino veritas si dice ma, è proprio questo il punto, quando ci si lascia andare con la poesia che abbiamo dentro, la facciamo nostra  come il profumo del liquore percepito prima di scolare il bicchiere che ci hanno offerto.

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Belle anche le cover, come “A Thousand Kisses Deep” di Leonard Cohen, o “Storyteller” di Rainer Ptacek: l’amico scomparso qualche anno fa a cui Howe era legatissimo, e di cui prima o poi dovrò parlare. Inoltre, io segnalerei anche la versione di “Moon River” cantata dalla figlia, pur con qualche difetto, che però la rende idonea all’atmosfera da bar dell’insieme, fra professionisti ed esordienti, perché anche il valore dell’improvvisazione, o di un’involontaria stonatura, o di una stecca con la chitarra che poi si riprende e conclude alla grande il pezzo desiderato, sono la degna scalette di un luogo come questo. Sì perché, il calore di un’America dimenticata e mai messa in evidenza dai media, la ritroviamo proprio dove si beve e non davanti alla televisione.

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Il resto delle tracce ci fanno venire la nostalgia e la voglia di essere lì con loro per unirsi al coro e scolarci una bella birra. Poi come sempre finiscono le storie, il barista inizia a mettere le sedie sopra i tavoli, invita ad uscire per fare pulizie, e così, mentre si spengono le ultime luci, barcollando, qualcuno ti chiede una sigaretta perdendosi nel buio del mattino prima che sorga il sole. Un saluto, una pacca sulla spalla, mentre l’irriducibile ti invita a cercare un altro luogo dove finire di bere. In fondo, se girate l’angolo, troverete il mio bar pronto ad accogliervi con un abbraccio.
Salute ragazzi !

il Barman del Club

17 Comments on “HOWE GELB – Gathered

  1. Pingback: A thousand kisses deep – Howe Gelb – vengodalmare

  2. Grande personaggio Howe Gelb, spesso dimenticato, ma che ha dato molto alla musica “americana” piena di contaminazioni punk , indie, alternative country oppure desert rock. Il disco in questione devo ancora prenderlo ma è nella mia wish-list, comunque grazie per avermelo ricordato visto che, a quanto pare merita…

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