Avete ragione, di vicini curiosi ce ne sono fin sopra i capelli, ed è difficile difendersi. Poi, se vogliamo vedere, oggi come oggi, la tanto decantata privacy è solo un miraggio lasciato nei retroterra del passato. Non è casuale che Andy Warhol disse la famosa frase in cui ognuno di noi in un ipotetico futuro avrebbe avuto i suoi 15 minuti di popolarità, e ora, che questo futuro è arrivato, Banksy gli ha risposto dicendo che in un ipotetico futuro, chissà se ognuno di noi avrà i suoi 15 minuti di anonimato. Perché è così, la rete ci ha unito in una corta di circuito interattivo dove ognuno sa tutto dell’altro, e non c’è via di scampo, i vicini curiosi sbucano da tutte le parti. Cerchiamo d’intendere questa voglia di scoprire fin troppo morbosa, come la scoperta di prodotti musicali un po’ particolari, che non siano necessariamente difficili, ma che s’inoltrano in una ricerca artistica la quale richiede qualche ascolto in più, e che gli inguaribili curiosi persistono nell’inseguirli proprio per un desiderio di conoscenza.
Bisogna comportarsi in maniera adulta e fare della musica un bene primario da poter condividere, perché la valenza delle sue emozioni e delle sue vibrazioni, è qualcosa che possiamo decidere se viverlo da soli o con il gruppo di amici che preferiamo. Buon ascolto…
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BILL CALLAHAN
“Shepherd In A Sheepskin Vest”
La misura dell’intimità di una persona non ha metri di misura, perché la consapevolezza del proprio vissuto è qualcosa che ci cresce dentro, per incontrare un’anima attraverso la sensibilità della poesia. Ma quando il silenzio e la solitudine vengono lasciati alle spalle sostituiti dalla genuinità della famiglia e soprattutto dalla gioia della nascita di una figlio, il tutto si può decantare come una forma di poema. In questo caso le tracce dell’album si lasciano raccontare e ci raccontano i vari quadretti domestici senza nessuna banalità, come se ogni lirica ci parlasse in maniera splendida del modo più bello per vivere. Potremmo scomodare Leonrd Cohen, anche se i vissuti sono diversi, riuscendo a trasfigurare tutte le forme d’amore, come una semplicità da accarezzare; o Vic Chesnutt, anche se fra queste mura non esiste disperazione. L’ex leader degli Smog ha il suo metro e il suo stile, trasformando il suo tono confessionale, nella pacata riflessione di uno come tanti, a cui piace immedesimarsi nelle forme più umili della natura. Infinite dream (!)
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EZRA COLLECTIVE
“You Can’t Steal My Joy”
Questo ensemble di jazzisti capitanato dal batterista Femi Koleoso, riesce a fondere la capacità improvvisativa con una miscela di afrobeat dove si percepiscono influenze che spaziano da ogni latitudine: reggae, hip hop, nu-soul, latin-pop e rap, eppure, la coesione di tutte le strutture melodiche, oltre a riformularsi attraverso la collaudata esposizione della jam-session, agisce da collante per ogni performance apparentemente staccata dalle altre. Ma la varietà nell’unità è proprio data dall’impronta stilistica di ogni compositore, il quale converge continuamente con il resto della band, costruendo continue strutture sonore in perfetta simbiosi con il resto dei musicisti. L’amalgama è perfetto, e quello che poteva diventare un calderone in ebollizione, in realtà viene cotto a fuoco vivace, senza che la riuscita scappi da tutte le parti. Come dicono sempre le persone allegre, la vita è una cosa meravigliosa, e questi giovanissimi pazzoidi ce lo confermano a suon di musica. Eclettico (!)
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JUJU
“Maps And Territory”
JuJu è uno dei tanti progetti di Gioele Valenti, italianissimo inventori di suoni sempre a metà fra la ricerca etnica funky-rock e la reiterata perversione di ringiovanire i cavalieri sonici del kraut, con le sonorità della world- music. Non è casuale che la partecipazione di altri musicisti amanti di questi generi, trionfa in tutto l’album, giusto per evidenziare come certe collaborazioni sono la scelta azzeccata per una riuscita eccezionale. La ripetuta successione di ritmi e controritmi è sensazionale, trascinando l’ascoltatore nelle dinamiche di un pathos che via via esplode dirompente con un susseguirsi di continue geometrie, mentre la base percusssiva non si stanca mai di ricordare le origini di un suono bellissimo. Se a questo aggiungiamo che lo pseudonimo scelto è un amuleto magico africano, ed è anche il titolo del quarto album di Siouxsie and the Banshees, ci rendiamo conto che le origini di tutto questo è un calderone magnifico dove perdersi e ritrovarsi. Elettrizzante (!)
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LANA DEL REY
“Norman Fucking Rockwell!”
Esistono voci femminili che ti fanno innamorare già dalla prima nota, e questa modella e cantautrice newyorkese, dal viso bellissimo e semplice come la classica ragazza della porta accanto, si rigenera attraverso le atmosfere dolcissime che l’hanno caratterizzata da sempre. Questa volta però il “realismo romantico” riconducibile all’illustratore Norman Rockwell del titolo, viene non solo ironizzato dal vocabolo scurrile aggiunto, ma si evidenzia negativamente anche in copertina, dove si vede in lontananza una terra che sta bruciando, mentre il ragazzo cinto sulla barca pare che sia il nipote di Jack Nicolson (d’altronde siamo dei vicini curiosi). Tutta questa serie di indizi, testimoniano che la voce sognante della protagonista è soltanto uno smarrimento di fronte a un passato che voleva dipingere l’America come la terra promessa e che invece sta bruciando in un presente pieno d’incuria, dove le atmosfere folk-pop che l’accompagnano, sono la testimonianza dello smarrimento. Melanconico (!)
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MATANA ROBERTS
“Coin Coin Chapter Four: Memphis”
Una delle più interessanti artiste di quest’inizio di secolo, è proprio questa sassofonista di colore, impegnata nella realizzazione di un’opera monumentale. Una nuova “recherche” giunta al quarto capitolo di una storia, la quale, s’insinua nelle radici dei suoi avi e nelle vicende di una schiavitù costruita sul dolore e sull’infamia. E’ difficile parlare di musica, perché l’espressività artistica di queste tracce è totale, talmente siamo immersi in una sinfonia dove, come una forza centrifuga, si concentrano blues primitivi, atmosfere jazzate disarticolate, strutture cacofoniche dall’impronta free, spoken word e parlati come liturgie del dolore, field recordings e spaccati noise dall’impatto teatrale. Bisogna sapersi immergere nelle vicende di un annientamento che va oltre il puro concetto strumentale: in questo caso tutto l’apparato musicale è soltanto un mezzo per amplificare la necessità di estremizzare l’angoscia di uno spaccato antropologico, vissuto in prima persona dai vari protagonisti, ma che rappresentano un racconto corale sulle vicende dell’umanità. Ipnotico (!)
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Non so se vi è mai capitato di sentirvi osservati, come se qualcuno spiasse tutti i vostri movimenti, come se l’ormai onnipresente occhio si fosse impossessato della vostra personalità, completamente. Il problema che da ancora più fastidio, al di là delle consuetudini fanta-quotidiane, è proprio quando un vostro vicino pratica questo sport con rigore urticante. E ce ne sono tanti… è un po’ come quella storiella in cui un condòmino troppo impiccione telefona sul cellulare di quello del piano di sopra, dicendole di fare più piano nel fare all’amore con la moglie, perché in quel preciso momento doveva riposare per via del suo turno di lavoro; e quel vicino gli rispose stupefatto che in quel momento era a pescare. Beh, che dire, se la gente si facesse i cacchi suoi…. Meglio la musica, continuiamo !
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PERE UBU
“The Long Goodbye”
Allora, devo sinceramente ammettere che questo in gruppo di culto la voce di David Thomas mi ha sempre dato un senso di fastidio, però, il fascino della loro carriera quarantennale è senz’altro un percorso da ripercorrere pienamente, visto che a detta del loro leader, questo è il loro ultimo lavoro. D’altronde, se il titolo dell’album racchiude una doppia valenza, tra la loro fine, e la metafora di un percorso noir alla Raymond Chandler, la rilettura delle risposte date nel corso di tutti questi anni è proprio quella definitiva. Non è casuale che il retrogusto harboiled messo in evidenza da una strumentazione completamente elettronica e calata nell’atmosfera industrial, si concentra nella trama che mette insieme tutta una serie di tasselli narrativi fino all’annientamento, in cui, un parlato spesso urticante, provocatorio e quasi presuntuoso fino all’irritazione, ci trasmette diverse chiavi di lettura. Probabilmente, se l’addio è come quello del romanzo in questione, e se nell’eccitazione creativa si nascondono tutta una serie di facciate taciute, quello che ci rimane è un saluto tra noi e loro (o lui), perché nella devianza nevrotica dobbiamo solo decidere da che parte stare: su chi indaga o chi uccide, o chi si nasconderà, definitivamente. Provocatorio (!)
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PORTO MORTO
“Portofon”
Spostiamoci in Croazia, per scoprire questo ensemble particolare e straripante, in cui, tutte le invenzioni creative, risuonano nella continua sovrapposizione di uno stile personalissimo, ricco di atmosfere folkegggianti, e poi rimodulate verso una new wave-pop alternativa che seduce fino alla ruffianeria. Tanto per rimanere in tema con il mio locale, questo è proprio un cocktail composto da diversi ingredienti, amabili e profumati che possono confondere l’avventore, tanto somigliano a sfumature caraibiche, ma che si posizionano oltre le spiagge dell’Adriatico, coniugando ritmi balcanici insieme a una forma di bossa-nova rimasticata alla loro maniera. Ma non siamo in Brasile, perché se il desiderio è quello di raggiungere un’etnica particolare, più eterogenea che mitteleuropea , allora, tutte le loro particolarità saranno sempre vive attorno a un viaggio continuo e sempre in fibrillazione. Giocoso (!)
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THE TWILIGHT SAD
“It Won’t Be Like This All The Time”
Con questi ragazzi scozzesi siamo dalle parti di una dark-wave con echi post-punk, i quali schiacciano l’occhiolino a un pop intelligente, giusto il tempo per incidere una manciata di canzoni che la critica ha giudicato fuori tempo massimo. Probabilmente è vero, perché se i richiami ai Cure e agli Editors sono evidenti, il loro sforzo creativo si concentra più sulle melodie che sul risvolto sperimentale, dando ampio spazio a un’orecchiabilità che nulla vuole se non piacere all’istante. E allora perché inserirli in una rubrica di lavori particolari? Ma perché tutto sommato il lavoro è ben fatto, e in un’epoca dove ogni cosa è derivativa da ogni cosa precedente, non mi sembra il caso di sparare a zero, solo per il gusto di essere stronzi a tutti i costi, mentre altri nomi se la cavano soltanto per il loro cognome altisonante. Sostanzialmente, ci sono dei generi che piacciono perché ritornano sulle tracce di chi li ha preceduti, anche per un omaggio radicato nelle dinamiche di un britpop che non è mai terminato. Ruffiano (!)
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THE WINSTONS
“Smith”
È stupefacente come un band italiana formata da personaggi quali Enrico Gabrielli, Roberto dell’Era e Lino Gitto, sfodera un esperimento così interessante che riassume cinquant’anni di musica dai Beatles al jazz sperimentale dei giorni nostri, fino ad altre band che hanno rielaborato le musiche da film degli anni ’70 come i Calibro 35; evidentemente, ritorna sempre il fatto che anche a casa nostra esistono esponenti di qualità, senza nessun fronzolo, capaci di strutturare prodotti eccellenti. Ma se Winstons Smith era il protagonista di 1984, ed è anche un gioco di parole, o di pronuncia con il Mito dei The Winstons: “The Winston’s Myth”, questi nostri ragazzi, giostrando con una psichedelia europea di ispirazione sixties, fondono e rifondono questi generi con un equilibrio perfetto, insieme a una gozzoviglia di ospiti eccellenti. In fondo, se questa nuova famiglia dal cognome immaginifico, serve proprio per scrivere delle canzoni del genere, allora, la fantascienza dei giorni nostri diventerà un rotocalco da sfogliare solo per il piacere di godersi un’ora di musica. Eccellente (!)
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TOOL
“Fear Inoculum”
Definire l’ultimo album di questa band di Los Angeles un’opera prog-metal è sostanzialmente un eufemismo, perché questa “iniezione di paura” è qualcosa che va al di là delle dichiarazioni di generi e sottogeneri. Tutto la complessità narrativa è costruita intorno a una preparazione sonica ragguardevole, senza mai strafare come potrebbero essere nel lasciarsi andare gruppi di questo tipo. Inoltre, la storia strutturata ricalca pienamente una trama leggendaria, perfettamente calata nella fantasmagoria di una tradizione ormai stratificata, ma l’ottimo bilanciamento fra voci e strumentazioni e la ricchezza lirica che si ambienta con le cronache di oggi, la trasformano in una complessa sinfonia dove tutta la liturgia del racconto diventa essa stessa una musica aggiunta. Certi accordi saranno sicuramente vicini al suono del metallo, eppure, tutta la complessa pianificazione delle ritmiche, la rendono e la elevano più in alto, proprio come un oggetto superiore: etereo e bellissimo. A noi non resta che ascoltare tutta questa epica come un’epopea quotidiana, che ci attrae e ci appartiene. Mentre nel mondo regna la confusione, queste tracce si aprono e si evolvono intorno a un’eleganza circoscritta come la perfetta soluzione dell’estetica. Imponente (!)
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Bene, dopo tanta curiosità dilagante, non ci resta che regalarci un po’ d’amore, proprio perché abbiamo bisogno di un cuore dentro e fuori le nostre giornate, e se la musica questo cuore ce lo rappresenta, allora, ben venga tutta la musica del mondo come un regalo dolcissimo, perché è proprio con l’eleganza e la forza delle sette note che le storie della nostra vita saranno ricordate e… mi raccomando, gestite la vostra curiosità con la discrezione delle persone intelligenti.
Salute ragazzi !
il Barman del Club
Sempre robbbaaaa buona qui!
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soprattutto il bere 😀 !!!
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I tuoi post musicali sono veri e propri scrigni del tesoro!
La voce di Lana è splendida. L’ho scoperta per caso anni fa acquistando una graphic novel, illustrata tra l’altro da Benjamin Lacombe, che aveva a corredo un cd con musiche in tema con la storia narrata. Avrei dovuto regalare quel libro, ma non ho potuto separarmene!
Grazie amico barman, un saluto di cuore!
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figurati, è sempre un piacere risentirti 🙂
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Tool – Pneuma è talmente penetrante per la mia mente che difficilmente riesco a ricordarne la trama, quindi, da bravo bradipo, l’avrò ascoltata almeno 50 volte !
I Tool, scoperti recentemente, hanno finalmente quella marcia in più che manca oggi a molta musica.
…Ma è una mia semplice riflessione !
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ma si, va bene, ognuno deve assaporare i suoi gusti personali nel migliore dei modi, ed è sempre bellissimo. Questo dei Tool è un album che si ascolta dall’inizio alla fine tutto d’un fiato. Spero solamente che abbassino il prezzo del suo acquisto, perché attualmente costa fra i 70 e i 140 euro con tutta una serie di packaging aggiunti, tipo libro, foto e quant’altro. Se prima di Natale uscirà il vinile lo comprerò di sicuro.
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🙂
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😉
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tanta roba)
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magari è poca 🙂
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Hola barman, sempre molto esaustivo nei tuoi consigli per ottime bevute con sottofondo di buona muzak. Ti dirò… Lana Del Rey – bellissima peraltro, e con una gran voce – non l’ho mai presa (seriamente) in considerazione dal punto di vista musicale, senonchè ultimamente l’ho vista duettare con il figlio del grande Leonardo Cohen, in una cover della magnifica Chelsea Hotel #2. Sono rimasto folgorato. E in questo suo ultimo album c’è Venice Bitch che è un pezzo decisamente superiore alla media. E non è il solo.. davvero una rivelazione (almeno per il sottoscritto). Sui TooL invece, fautori imho dell’ultimo capolavoro assoluto di rock pesante (Lateralus, 2001) boh… direi che mi annoia abbastanza. Sarà che dopo 13 anni di attesa dal predecessore son invecchaito anch’io…. poco ma sicuro, ma non riesco ad ascoltare più di due pezzi di fila. Alla salute!
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Quando passano molti anni fra un disco e l’altro, è sempre difficile giudicare la qualità dello stesso, anche se il “10000 Days” del 2006, già preannunciava un cambio di rotta della band di Los Angeles. Poi é sempre una questione di personalità: chi è più propenso verso un suono progressive preferisce quest’ultimo, chi invece è più legato al metallo preferisce “Lateralus”. Se devo trovare un difetto di quest’ultimo è nella ripetitività dei pezzi e nella sua eccessiva lunghezza, poi come sempre sono le emozioni a muovere le nostre coscienze. Sicuramente ero dubbioso se metterlo in questa lista, perché troppo conosciuto; probabilmente meritava un post a parte. Avrei preferito scrivere di gruppo minori, ma tant’è, bisogna alzare l’asticella altrimenti la gente si perde.
Lana Del Rey è stata una sorpresa anche per me, perché l’ho sempre considerata troppo mainstream, e invece con questo lavoro direi che si mette su un piano veramente personale.
Grazie del tuo intervento, meriti un giro di roba buona (!!!!!) 😀
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Mi sono ubriacata di musica, di buona musica. Mi fermo, mi preparo ad affrontare il cielo grigio e la pioggia 😦
Grazie, e buona giornata.
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allora sarà dura… 🙂
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