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Se il 2020 si è aperto con un album di una bellezza abbagliante come questo terzo lavoro della band di Atlanta, allora possiamo dedurre che di vita ne abbiamo ancora tanta davanti, giusto per gustare tutta quella meraviglia che la musica ci porge, soprattutto pensando al decennio appena passato e a quello che ci aspetta. Fondamentalmente, ci siamo lasciati coinvolgere da un’espressività debordante, in cui l’eccessività e la forsennata voglia di produrre e riprodurre tutte le idee confluite nelle dinamiche dell’evoluzione artistica, ha ribaltato la forma originaria in cui soltanto il talento poteva emergere e poi conseguentemente supportato dai professionisti del settore. Allora che dire se la classe bisogna cercarla coniugando la progressiva capacità di elevarla a valore e non soltanto a passaggio da scaricare, accomunando le variabili di questo verbo dalle molteplici stratificazioni metaforiche?

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Photo Christian Hogstedt

Gli Algiers stanno tenendo duro, così come i resistenti della nota rivoluzione contro i francesi, perché i loro testi e il loro modo di agire li ha fatti emergere dalla stagnazione di questi anni ’10, come se l’appiattimento dilagante dovesse per forza essere fonte di reazione attiva. Non è casuale che il rifugiarsi dietro a schermi misurati a pollici abbia creato una serie di generazioni troppo passive nell’affrontare i problemi, mentre d’altro canto quelle che sono state definite “primavere arabe” hanno utilizzato il video del PC per muovere le piazze. Ma siamo sicuri che sia così?  Dove collochiamo il sistema se  un’idea di libertà si riesce a trasformarla in uno strumento di controllo?

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Fortunatamente la gente non è stupida del tutto, e se consideriamo che questi ragazzi provengono proprio da una città segnata da una segregazione razziale con molteplici sfaccettature, vista anche la reazione artistica e architettonica che ha fatto della cultura un mezzo efficace per contrastare le inquietudini del sud degli States; la risposta affermativa nasce proprio nel mettere insieme un leader nero con dei compagni di viaggio bianchi, riuscendo a coniugare proposta e reazione, tradizione a innovazione.
Se questi anni ’20 si sono aperti con i movimenti, i quali, da Hong Kong ai Gilet Gialli, fino ai disordini in Cile, hanno dato il via ha una nuova coscienza, vuol dire che le avvisaglie già cantate dagli Algiers negli album precedenti, erano e sono la risposta artistica in cui anche coloro che si muovono in ambienti dinamici come la musica, dovrebbero avere.

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Giunti al loro terzo lavoro, dopo il fulminate esordio del 2015 e quello un po’ al di sotto delle attese nel 2017, riescono a superare la prova con questo “There Is No Year“, giusto a sottolineare che non sono assolutamente una band di passaggio, come tante in questo periodo, ma al contrario si impossessano di una sicurezza accattivante, insieme a una miscela di hard-soul veramente devastante. Le intromissioni elettro-industrial poi intensificano quella modernità già esplorata da altri, e che in questo caso s’insinuano nei solchi come una carta vetrata strofinata sulla pelle.

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Bellissima è anche la scelta del titolo, preso in prestito da un romanzo di Blake Butler, in cui, la classica famiglia americana, andando a vivere nella stereotipata zona residenziale statunitense, si ritrova a fronteggiare, nella quiete apparente, un’altra famiglia identica alla loro, come se lo specchio che vive in ognuno di noi, si ribellasse alle maschere che nascondiamo liberando i mostri dei nostri abissi. Ma la metafora della quiete domestica che genera paure e ossessioni, è proprio la genesi che su larga scala dilaga nel mondo, fino a distruggere le nostre certezze, falsamente costruite sull’ipocrisia.

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Ogni canzone è trascinata da testi che esplodono o implodono a seconda della tematica narrata, ma che attraversano un repertorio gospel geneticamente modificato, fino a strutturare la rabbia e la consolazione come due mondi che non vanno in collisione, ma che si amalgamano per trasmettere tutto il loro impegno politico. Il tessuto sociale radicato nelle continue lotte sono un manifesto per niente scontato, perché il lirismo espresso viene modulato da una poesia nervosa e sincopata, la quale, dopo un inizio che fa da apripista al problema narrato, via via raggiunge episodi violenti sia nella struttura e sia nella estensione parlata.

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Eppure, in questo loro cercare una rivoluzione si nasconde una dolcezza che nasce da un’infanzia cresciuta fra i canti delle chiese delle periferie, in cui, stemperare una lotta quotidiana rappresentava quel momento segnato dalla voglia di credere in qualcosa, poi riversato nei solchi dell’espressività artistica con la rabbia necessaria per poter agire con i loro strumenti. Le liriche poi fanno il resto, producendo quella reazione a catena difficile da fermare, come in quei momenti dove una guerra sembra pianificata proprio per non essere fermata, e la risposta degli oppositori si misura prima con le parole e poi con le azioni che giustamente iniziano per proteggere la propria terra.

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“…Mancano due minuti a mezzanotte / e continuano a costruire case di carte / che si estenderanno fino al giorno in cui cadranno / mentre il nemico è tutto intorno a noi / e ci separa lentamente fino al giorno in cui cadremo tutti. / Ci stiamo preparando con la musica / in questa alterazione che ci vuole controllare. / E più gira e più ci si modifica la mente / ma in entrambi i casi, non puoi guardare nelle stanze buie / e farle fiorire come una rosa nella bocca di una pistola. / Ci stiamo avvicinando per essere abbattuti / mentre il mondo intorno a noi implode / con nuovi nomi per “Dio” e “paese” / con parole nuove per ogni canzone che cantiamo. / Ed è solo per essere abbattuto / Ed è solo per sparare. / Non mi importa se il mondo intero sta bruciando, o Signore / e tutti gli uomini obbediscono. / Ci sono alcune cose che ho dimenticato di temere / e tutti gli uomini obbediscono. / Continua a urlare finché il tuo regno non va in frantumi / e tutti gli uomini obbediscono. / Non si fermerà finché non sono sicuro che tu ascolti / e tutti gli uomini obbediscono. / Sto gemendo sul pavimento per il tuo perdono / e tutti gli uomini obbediscono. / Ma qui arrivano, quattro venti per distruggere. / E quattro cavalli, li sento arrivare. / Shhh, inizieremo laggiù. / E usciremo a spirale con le nostre canzoni. / Ed è solo per essere abbattuto.  / Ed è solo per sparare…”

(da “There Is No Yers”)

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Photo Christian Hogstedt

Sarebbe troppo facile fare dei parallelismi sempre a metà fra Gil Scott-Heron e James Brown, fra i Suicide e gli MC5, fra la “famiglia” di Sly e i Sleeping Giant, fino alle perturbazioni di Hyro The Hero, ma sostanzialmente è l’entroterra blues che prende sempre il sopravvento, generando e rigenerando quella struttura legata alle radici e poi rielaborata con una modernità sorprendente, in cui, ogni traccia si fa amare proprio per l’evoluzione che trascende. Questo album suda e trasuda energia insieme a episodi intimisti anch’essi gestiti per allargare la metafora intrinseca, idealmente lanciata proprio all’inizio di questo nuovo decennio, in maniera per niente casuale.  Risentirli è sempre un’emozione, e come tale, non possiamo rimanere indifferenti.

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Siamo sempre vissuti dentro a un equilibrio dove si sono alternate violenza a poesia, ed è proprio dentro a questa energia che bisogna rigenerare la nostra vitalità e la nostra voglia di riemergere. Vivere in apnea dentro a un mondo dove l’aria che respiriamo è un bene necessario, non ha senso; e allora dobbiamo ripulirla dalle impurità, rigenerarla finché possiamo. La musica sarà soltanto un inizio, ma come tutte le espressività artistiche, ha e avrà sempre una funzione dirompente, soprattutto per chi la ama. Ma come sempre è proprio l’amore a emergere dalle acque della disillusione.
Beviamoci sopra…

Salute ragazzi !

il Barman del Club

 

15 Comments on “ALGIERS – There Is No Year

  1. Che bel post! Lo metto in acquisto. Mi hai convinto…ho il primo album mentre ascoltando qualcosa delsecondo non mi avevano convinto. Sei proprio bravo a raccontare un album.

    P.s. ti è scappato un click: hai scritto collisone…
    🙂

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    • si … Christian Hogstedt è un fotografo specializzato nel settore della moda, ma penso che abbia anche una passione per la musica, ed essendo di New York, probabilmente frequenterà anche ambienti underground. A meno che questo non sia stato un servizio predisposto dalla casa discografica…

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  2. Pingback: I migliori album del 2020 – per l’Intonation Cocktail Club 432 – Intonations Cocktail Club 432

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