Ci sono artisti che sono capaci di crearsi intorno, inconsapevolmente, un’aura di culto, soprattutto quando quell’aura ha un sapore maledetto, blasfemo, cupo, oscuro. Sarà che il pubblico s’innamora di queste figure, mitizzandole fino allo stremo, idolatrandole proprio perché trasmettono una configurazione del male vissuto in prima persona e offerto come un’ostia sconsacrata, adatta per immaginarsi nel salotto di casa le scorciatoie della trasgressione: un desiderio che ognuno di noi ha dentro e che mai abbiamo messo in pratica. Lo sappiamo da sempre, anzi, fin da bambini, quando la voglia disubbidiente è una forma di resistenza verso chi è sopra di noi: genitori, insegnanti, politici, tutori dell’ordine e della legge; come se il male s’identificasse nella reazione anarchica verso una serie d’imposizioni che non accettiamo. Poi, qualcuno si adatta e altri no. Tanti si adeguano, pochi si ribellano. Ed ecco che emergono le figure di quelli diversi da noi, anzi, psicologicamente uguali, come se l’abisso che li ha inghiottiti fosse un film di finzioni che noi assimiliamo proprio perché le riteniamo tali, e che invece sono fottutamente reali. Come a dire: mentre loro si distruggono, noi assistiamo quasi morbosamente alla loro fine, consapevoli di non esistere in quel mondo, ma che idealmente avremmo voluto viverlo anche solo per un momento. Mark Lanegan era uno di questi ribelli, e noi lo abbiamo amato.
Dopo la sua morte, la rete si è riempita della sua vita, considerando il fatto che proprio due anni fa è stata pubblicata la sua autobiografia: “Sing Backwards and Weep“, in cui si confessa: dalla turbolenta adolescenza da teppistello salvato dal rock e dagli esordi con gli Streaming Trees, fino ai primi album solisti, e in mezzo, una vita fatta di abusi, droghe, alcol e fumo fino all’annientamento o all’autodistruzione. Il diario di un tossico sopravvissuto a tutto e a tutti, fino ad ora, quasi che la musica sia stato solo un mezzo per girare il mondo fuggendo da Ellensburg e dal suo anonimato.
Volutamente, non ripercorrerò dettagliatamente la sua carriera perché in questi giorni la rete è piena della sua figura, di testimonianze, di aneddoti e retroscena fino allo sfinimento, attraverso le sue frequentazioni e le sue innumerevoli collaborazioni.
Parleremo dei suoi testi, della sua poetica nichilista e nel sentirsi a suo agio dentro un certo tipo di lirica, apparentemente cruda, buia, ma per lui salvifica.
Fin dal suo esordio solista datato 1990 “The Winding Sheet” leggiamo frasi tipo: “…Ho visto Dio che fissava dal muro / la notte in cui escono i cani dell’inferno / L’oscurità sfida i miei occhi a chiudersi… / Ero malato nell’anima tutto legato in un lenzuolo avvolgente / Stanco mi adagio sulle spine, pieno di paura nella mia testa… / Gesù tocca la mia mano per favore, toccami la mano con il sole al tramonto…” Ma è con il secondo album “Whiskey For The Holy Ghost” che la poetica si fa più nitida e più vicina alla sua anima in cui la disperazione viene vissuta come una carezza, e accettata come consolazione: “…I guai arrivano lentamente / Una luce eterna viene a risplendere su di me / luminosa al mattino / come tutto l’amore del cielo che viene a brillare su di me / ‘fanculo, ho bisogno di un po’ più di spazio per respirare / Ecco che il diavolo si aggira / Un whisky per ogni fantasma / Si rompe e respira / E ti fa a pezzi / Morde e sanguina / e mi dispiace per quello che ho fatto / E questo deserto si trasforma in oceano su di me… / E mi dispiace per quello che ho detto / E questo deserto si trasforma in oceano su di me…“
Nel terzo lavoro solista “Scraps At Midnight” le cose non cambiano molto, nonostante la ricerca di un amore che si affaccia e si perde continuamente, come un letto disfatto e mai ricomposto, complici gli arresti per detenzione di sostanze stupefacenti, e le sue disavventure sempre sul confine che lo lasciano ogni volta in equilibrio precario: “…Ricordo la caduta / tutti i miei giochi strani e semplici / giocati in cima a un muro / Pregando per dormire / Pregando per qualcosa di così facile / Se solo la luna / mi avesse lasciato solo…“
Non è casuale nel nel suo quinto album “Field Songs” (il quarto era uno splendido disco di cover) i toni pessimistici si attenuano, complice una pausa con la vita e i suoi eccessi. Evidentemente, disintossicato, almeno parzialmente, anche le sue parole s’intonano dentro a delle melodie che fanno capire quanto un tregua interiore sia importante per continuare: “…Scendiamo verso l’acqua / c’è il giacinto in fiore / Passo le mie giornate ad amarti / lasciando questi campi perché non lo sapevo / Non avrei il cuore per essere un cavallo, un treno / e accanto a queste tracce / troverai un carrello di mele / Forse resteremo a casa / e non ci muoveremo più da soli / Guarda l’acqua, è mescolata con la luce…“
Ma è con i suoi due lavori successivi “Here Comes the Weird Chill” e “Bubblegum” che assistiamo a una potenza sonora distruttiva, in cui, anche i testi esplodono di vitalità e di freschezza, come se le rovine del passato si fossero ribellate: “…Sono stanco di essere diabolico / Stufo di essere malvagio / abituale e falso / Bisogna ricominciare / anche nel finale… / Guardo l’estate svanire / Sto solo cercando di arrivare da qualche parte / Cercando di arrivare ovunque / e so che non è il mio giorno…” E poi ancora: “…Non importa essere lapidati, hanno detto che Gesù lo era / E mi piace stare da solo, e potrei stare tranquillo / Perdona il mio essere crudele, se mai lo sono stato / Dì una parola anche per me, quando sono sotto tiro…” Fino alla consapevolezza di esistere nonostante la storia personale di ognuno, cruda quanto si vuole e accesa ancora in quell’abisso : “…Ho scritto un nome con la pistola ad ago / Ho fatto un giro su questa giostra / e non posso mai dire quanto tempo fa / Non ho mai smesso di chiederlo a me stesso / forse una mattina, forse, mille anni… / Vorrei amore, signore / Vorrei che l’amore potesse vivere, per sempre / e non mi sono mai fermato per chiederlo a me stesso / Infilato un nome / attraverso la cruna dell’ago / come cornice / legato alle estremità e cucito / per chinare la testa e piangere… / Vorrei amore, signore / Vorrei che l’amore potesse vivere per sempre…“
Sostanzialmente Lanegan non possiede l’ironia di un Tom Waits, o lo spessore culturale di un Leonard Cohen, e nemmeno la violenza evocativa di un Nick Cave, senza citare altri maestri della penna come Bob Dylan, Jim Carroll o Lou Reed. Diciamo che si evolve strada facendo, struttura le sue liriche sempre a metà fra un realismo diretto e un simbolismo accentuato solo a tratti, come se la necessità di esistere intorno ai suoi demoni, si fosse resa necessaria per dare equilibrio all’evocatività del retroterra blues che gli appartiene, creando una metamorfosi fra parola e significato, anzi: un cortocircuito, nel senso che ogni mattina potrebbe sentirsi nei panni di uno scarafaggio, ma la sua forte volontà gli fa superare questa visione. È un po’ come la farfalla che inverte l’entropia: ritorna bruco, giusto il tempo per strisciare fino alla consapevolezza di esserlo, rialzandosi di nuovo, rivoltando ancora il tempo. Anche i suoi testi seguono questa dicotomia e la evolvono intorno alla tradizione della letteratura americana.
Poi come sempre succede, l’eccesso porta non tanto a uno smarrimento, ma a un ripensamento che riavvolge il nastro quasi a ricominciare da capo. Le sue diverse collaborazioni, dalle Desert Session ai Queens of the Stone Age, da Greg Dulli a Duke Garwood, da Isobel Campbell ai Soulsavers, dai Twilight Singers fino a Not Waving; dimostrano la sua voglia di evadere dai suoi recinti garantendosi la salvezza. ” …E sei libero / Sei di nuovo libero / Un’altra volta…“
Come si vede le parole hanno una forza dirompente, riescono ad accompagnare la forma canzone fino ad arricchirla di luce propria come una forma d’innesco: accendono la miccia in cui l’artista decide quale esplosione far brillare, dentro o fuori, non importa. Il risultato sarà sempre importante: sia per chi canta e sia per chi ascolta.
In quella che potremo chiamare la seconda parte delle sua carriera, Lanegan sfodera album eccezionali: Blues Funeral; Phanton Radio; Gargoyle; Straight Song of Sorrow, rappresentano la conclusione del cerchio che purtroppo si è chiuso troppo presto, probabilmente per lo strascico che si portava dietro: “..Perso in un mare violento / me ne sono andato per giorni interminabili / Ho cercato di liberarmi / Ma è stato difficile staccarsi / (…) / Ora non è un peccato / gettare ombre sul muro / Troppo tardi per imparare un altro gioco / trafitto da ciò che non si vede / (…) / Suona il fantasma della ninna nanna d’autunno / Sai come sono sceso in città / ho spento la luce dell’amore dai miei occhi…“
Tutto scivola via come se i ricordi fossero troppo presenti, troppo pressanti, troppo vicini alla sua continuità: “…Ora il nero è un colore, il nero è il mio nome / Mi dispiace, ho venduto
Il mio raccolto, la mia casa…” (…) “…Tempi difficili per camminare sotto il sole / strisciando attraverso una frana / Colpevole di alcuni vecchi delitti / gli occhi chiari non possono evitare il riflettore… / Cicatrici, ossa e sangue / Ferro, argilla e fango / Posso trovare la mia strada? / La discarica è lungo il ciglio della strada / Guarda nel cielo freddo / guarda negli occhi della tua mente / Mezzanotte, non può sfuggire al riflettore / Cicatrici, ossa e sangue / Ferro, argilla e fango / Troverò la mia strada / A modo mio / Attraverso il fondo dell’oceano…”
Quello che colpisce non è una forma di depressione latente, ma la consapevolezza di un passato vissuto e rivisto con la fierezza del suo carattere: duro, ostico, difficile e nello stesso tempo, cocciuto, sincero, vero, come la sua poesia che abbraccia il tempo e lo fa suo: un regalo a sé stesso e al suo mondo: “…Io sono il lupo senza branco / bandito tanto tempo fa / Sono sopravvissuto all’uccisione di un altro… / Sono il lupo che rastrella la spiaggia / Troppo affamato per fuggire ancora… / Io sono il lupo, alto, selvaggio e libero…”
“…Libero la mia anima dal vuoto / Conosco il gusto del dolore / stasera sono delirante / Vivo per suonare domani / Vivi per suonare domani…”
Non voglio scomodare Socrate parlando di maieutica, ma quando uno come Lanegan continua un serrato dialogo con sé stesso e la propria anima, scartando ogni elemento inutile del suo vissuto, concentrandosi dentro al nocciolo della questione, è come se la percezione psicanalitica di ogni sua azione, si potesse esprimere solo da quel centro in particolare, e proprio da quel centro ripartire per una nuova nascita. Il metodo creativo di un autore come Lanegan, esce allo scoperto interrogandosi senza finzioni di qualsiasi genere: ogni filtro è eliminato, ogni maschera viene tolta e la verità viene a galla, ogni volta. Se leggiamo i testi del suo ultimo album: Straight Song of Sorrow di cui ho già scritto (e vi lascio il link della recensione che vi consiglio di leggere), il dialogo che s’interpone fra lui e la signora vestita di nero, è in realtà un interrogarsi con il suo alter-ego, come se la morte fosse lui stesso. I piani dialettici alla fine si sovrappongono come una persona sola, giusto il tempo per ricollegarsi al mio discorso iniziale sul bene e sul male, perché, per conoscere il bene, bisogna aver vissuto il male.
“...Ci conosciamo fin troppo bene / Camminando fianco a fianco attraverso i campi dell’inferno / … / rimaniamo io e te / ma un giorno saremo liberi…”
Dalla sua autobiografia leggiamo: ” …Ho sempre avuto una forte fascinazione per il perverso e l’insolito. Quando ero adolescente vidi una vecchia foto di un uomo completamente tatuato e iniziai subito a tatuarmi con un ago per cucire… Quando lessi Junkie di William Burroughs, capii subito che un giorno sarei stato dipendente dall’eroina. Trovai una copia de Il delta di Venere di Anaïs Nin. Coltivai fantasie sessuali elaborate e ossessioni segrete di ogni genere. Volevo eccitazione, avventura, decadenza, depravazione, tutto, qualsiasi cosa… Non avrei mai trovato nulla in questa polverosa e isolata città di campagna. Se questa band fosse stata in grado di portarmi fuori, di darmi la vita per cui io smaniavo, il risultato sarebbe stato degno di qualsiasi oltraggio, qualsiasi sforzo, qualsiasi tortura…“
Tutte le foto sono prese dal web e poi raggruppate
Che dire ancora, Mark Lanegan rappresenta quella forma di scissione e di libertà che l’artista esercita credendosi immortale, anche se in senso figurato. Ma se la morte è l’unica certezza e la vita un semplice passaggio da riempire con ogni cosa ci passi per la mente, tutto quello che si sperimenta per entrare in questo mistero che cerchiamo di decifrare da millenni, consiste nell’invertire il senso del piacere. Gioia e dolore fanno parte della stessa idea di base, come se l’eccesso sia la soglia per la quiete: provare di tutto per trovare la pace. Bruciare per sentirsi fumo e non cenere. Elevarsi e non sotterrarsi. Mettersi a nudo e non scomparire. Provarci, sempre, e Lanegan lo ha fatto: “…Se le lacrime fossero liquore / mi sarei ubriacato da morire...”
Salute ragazzi!
il Barman del Club
Grazie per aver elevato la poesia di questo artista. Il male ha sempre avuto un certo erotismo per chi osserva, lo stesso erotismo che poi viene sepolto con la morte di chi in terra ha camminato sui carboni accesi. Leggendo si percepisce la violenza delle metamorfosi, la genialità creativa e questo è solo merito tuo! Grazie ancora! Un abbraccio.
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Si… diciamo che io ho letto e interpretato, ma i meriti sono sempre degli artisti che ci fanno emozionare, e Lanegan è uno di questi 😉
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ciao Antonio, proprio ieri mi sono riscoltato Blues Funeral, sono ancora sotto shock per questa perdita
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A chi lo dici… Ciao Flavio!
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Questi artisti si contornano di un’aura inquietante, percepita dal pubblico che, viene attratto oltre che dalle canzoni che, spesso sono delle vere poesie, anche di quell’aura in cui si muove la loro vita creduta affascinante, a volte si hanno delle brutte sorprese sul loro defungere prematuro e improvviso- Un caro saluto Antonio.
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Grazie, un caro saluto anche a te, buona serata!
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Sto leggendo con attenzione
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prego… 🙂
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Ciao, Antonio.
Thanks for this superb retrospective article on M*L :: on His Art & Live… An unique Musician … indeed …
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• MARK LANEGAN •
“. . . If I didn’t have to die at some point, I would be very unhappy …”
“… I really like this type of music when someone can take a guitar or light instrumentation and a beautiful voice and can carry me somewhere.” –
• https://youtu.be/ZzYqXLpqkdw
• https://youtu.be/Cgxc5VqzYrI
…………….. Mark Lanegan R.I.P.
.”. . . Se non dovessi morire a un certo punto, sarei molto infelice …”
“… Mi piace molto questo tipo di musica quando qualcuno può prendere una chitarra o una strumentazione leggera e una bella voce e può portarmi da qualche parte.”
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• MARK LANEGAN • The singer (of “Screaming Trees” and “Queens of the Stone Age”) dies aged 57 . . .
• https://www.edinburghnews.scotsman.com/news/people/who-was-musician-mark-lanegan-and-how-did-he-die-3581517
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thank you
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Non potevi raccontarlo meglio, gli ha restituito vita nel tempo di questo racconto, sembrava che ci stesse ancora parlando.
Grande artista, cantante e poeta insieme. Grande uomo, ha vissuto quello che voleva vivere. E grande perdita per noi.
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Si, una perdita, perché secondo me poteva dare ancora di più, nel senso che la maturità poteva regalargli una seconda vita, meno pericolosa ma più artistica, alzando l’asticella sia della poesia che di una versione alta di qualità, e per poesia e musica intendo la degna conclusione di una carriera tra le più interessanti.
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“…ogni filtro è eliminato, ogni maschera viene tolta e la verità viene a galla, ogni volta”. Con Lanegan era davvero ogni volta così. Ed è per questo che la sua morte fa così male, perché sembra che se ne sia andata una parte di verità del mondo, un suo pezzo delicato ma fondamentale.
Grazie per questo articolo.
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Concordo in pieno…
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