Stavo per scrivere dei post sui migliori album usciti in questi primi tre mesi dell’anno, e uno di questi doveva essere dedicato alla musica di casa nostra, ma quando mi è capitato fra le mani il terzo lavoro di questa band vicentina, ho avvertito un tuffo al cuore: un sussulto, derivato dalla sua straripante bellezza. Di conseguenza, è necessario dedicargli un articolo a parte, soprattutto per la mole enorme di sensazioni che genera, e per il continuo sovrapporsi di sfumature legate a un sound il quale, centrifuga un insieme di stili fino a elaborarne uno decisamente convincente. Come a dire: se ci tuffiamo in una danza rituale dove coesistono etnica, nu-metal, post-rock, exotic-jazz e devianze prog fino allo sfinimento dalla conclusione appagante, la sua riuscita ci stende, perché non riusciamo a resistere, come se una sperimentazione liturgica si genuflettesse intorno alla splendida voce della frontwoman del gruppo lasciandoci senza parole, senza fiato. Un’ora abbondante di suoni per essere storditi dal fascino puro di questa performance.
È chiaro che ci troviamo nei territori situati nella terra di mezzo di un percorso iniziato anni prima, e che ora ha raggiunto la sua maturità espressiva, sviluppando il doom-stoner dalle tinte occulte degli esordi, con un’evoluzione di qualità sorprendente, coniugando le avventure word dei Dead Can Dance con la ritualità ossessiva dei Windhand, la gioia ritmica dei Blood Ceremony con le suggestioni oscure di Chelsea Wolf, fino alla pulsione straripante di Anna von Hausswolff o dei Tool. Ma i nomi come sempre servono poco: aggiungono una traccia emotiva per contaminarci e si fermano lì. Quello che conta è il risultato finale ottenuto da questi quattro ragazzi, con il successo che stanno mietendo all’estero proprio in relazione alla qualità che sono riusciti a generare.
L’album è calato completamente nel misticismo mediterraneo, utilizzando si un hard-rock come vestito sfavillante, ma il suo cuore batte attraversando tutte le regioni che vengono bagnate dal mare dov’è nata la nostra civiltà, e con essa, tutti i loro suoni. Poi, si sa, la passione vince sempre, come se un retroterra cresciuto ascoltando gli eroi degli anni ’70, decidesse di assumersi la responsabilità di dirigere l’orchestra per non farsi mancare niente. Ecco che ogni traccia pulsa di vita e di mestiere, di ritmi e assoli visionari, di impulsi e di storie dall’incedere mediorientale mischiato con un tribalismo nordafricano, potente e ricco di fino alla stupenda interpretazione che Sara, la vocalist, imprime con una classe fuori dal comune, spettacolare, giganteggiando fra le note, sorprendendo per come riesce a giostrarsi nelle ottave sembrando una veterana. Tra l’altro, è proprio il suo essere presente come protagonista a lasciare un marchio di fabbrica fascinoso, riempendo la scena, fino a creare un contrasto appariscente fra le sue melodie eteree dal retrogusto tipicamente femminile e l’esplosione dirompente delle chitarre.
“Close” ha un anima incredibile, multiforme e unitaria nello stesso tempo: il perfetto esempio di come possono coesistere quiete e violenza, perché, nel momento che sembra strabordare da ogni crinale, si ricompone nella magnificenza della sua assoluta perfezione. Niente è fuori posto, tutto pulsa attraverso un’energia positiva, perennemente in equilibrio fra trascendenza e materia fusa. Inoltre, quella che sembrerebbe un’avventura vintage, è invece la riproposizione modernista di un’evoluzione capace di assimilare tutte le dinamiche succedutesi nel corso degli anni, per essere finalmente un esempio di libertà creativa assieme alla prefigurazione che determina la piacevolezza dell’ascolto. Non è casuale che nonostante da ogni poro si respiri la classicità del rock e dei suoi dintorni, raggruppando gli stili che abbiamo già nominato, l’esposizione che si apre ad una ricerca intelligente, determina un susseguirsi di gemme preziose inanellate con altri strumenti, rendendo la fruizione del prodotto un’esperienza unica senza mai smarrirsi, anzi, tutto l’album lo si fa proprio riascoltandolo continuamente, e ogni volta si rimane meravigliati.
le foto sono prese dal web
La vita è piena di sorprese, soprattutto quelle musicali, perché al di là delle ricerche sperimentali che viviamo ogni giorno nello scovare o seguire gruppi dall’impronta innovativa, quando ci troviamo di fronte una band che ci colpisce in maniera così positiva, soprattutto nella forma della sua bellezza, allora, abbiamo la consapevolezza che dopo tutto, il mondo, è un luogo che avrà pure le sue derive negative, o iconoclaste, o asfittiche, o addirittura degenerative, ma con un attimo di poesia, qualcosa in noi cambia, ricostruendoci l’identità, ricostruendoci la vitalità.
Salute ragazzi!
il Barman del Club
La voce di lei per me è molto evocativa. Molto! Componente essenziale che valorizza tutto il resto! (Cin!)
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concordo: è alla base di tutto il risultato finale …
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Dopo il tuo veemente articolo non posso fare altro che correre a comprare l’ album. 🙂 Ho ascoltato il brano, la voce della cantante veramente bella, bravi tutti gli strumentisti, brano per niente “provinciale” anzi dal gusto internazionale e di tutti i tempi, molti richiami ma elaborati in maniera propria; insomma, complimenti a loro e a te.
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🙂 diciamo a loro, e hai azzeccato con la parola “internazionale”, penso proprio che lo siano.
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Interessante proposta Antonio… Ho cercato l’album e mi sono tra l’altro persa dentro ad un pezzo… Pildgrim… Molto adatto poi per entrare nel sound della trance dance. Mi piace parecchio questa contaminazione di suoni tra durezza e estasi strumentali provenienti dal mondo etnico. Grazie ❤️
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figurati… sono gioie condivisibili 😉
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Orphalese, mi pare la terza traccia è quella che più mi scaraventa alle origini, il duduk, lo strumento utilizzato a fiato iniziale è primitivo e graffiante, e poi la voce della cantante, con le sonorità che l’accompagnano, mi riporta ai primi Dead can Dance, almeno per alcuni risvolti vocali che sì avvicinano molto alla prima Lisa Gerrard, con tutte le dovute differenze s’intende.
Come dicevano prima anche l’uso di strumenti più vari e di etimologia “antica”, direi, come il duduk o Oud arabo, se non sbaglio, solo per fare alcuni esempi, trasmettono un’atmosfera, a tratti gotica, per altri versi nebulosa e rockeggiante, donano all’intero album un sapore contaminante e per questo fare più includente. Perchè la vera “magia” è proprio la particolarità e la non omologazione, e in musica come in poesia è il tratto che più m’intriga. Niente male, veramente.
Ciao Antonio
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Si ha colpito molto anche me, proprio per non essere per niente banale, anzi, è proprio la contaminazione fra mondo antico e moderno, passando per la visceralità del rock, che lo rende meritevole senza essere stucchevole. Oltretutto, la fisionomia di fondo che non emula quello che c’è stato prima di loro, ma lo supera con una freschezza sorprendente, lo rende veramente lodevole. Certo, la voce della cantante fa tanto, ma dentro a questo “tanto” c’è un lavoro di costruzione da applausi.
Grazie del tuo bel commento Sarino, buone cose…
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ottimo suggerimento, me lo cerco
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Qualità assicurata 😉
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Una band che colpisce specie la voce della ragazza, ma anche gli strumentisti fanno del loro per far risaltare questa musica lodevole ed evocativa a tratti gotica che attrae e avvince. Complimenti e buona serata Antonio..
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Grazie del commento perché sei entrata nelle loro coordinate… Buona giornata anche a te!
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