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Venerdì sera, 23 gennaio, presso la sede del Gruppo Acàrya di Como,  si è tenuta una serata sul giorno della memoria che è voluta andare al di là della retorica con cui solitamente vengono gestite queste rappresentazioni, anzi, ha integrato nel suo insieme tutta la presentazione con una multimedialità interessante fra poesia, letteratura e musica, coordinata dal poeta Francesco Maria Gottardi.

Si è iniziato presentando il libro dei giornalisti  Giovanna Caldara e Mauro Colombo dedicato alla storia della comasca Ines Figiniclasse 1922, scampata all’esperienza dei campi di sterminio. La sua è una storia che andava raccontata e che possiede un aneddoto bellissimo che poi è alla base di tutto il racconto, autentico, il quale inizia nell’adolescenza della protagonista.
Ines, infatti, era una ragazzina esuberante, sicura di se stessa, intraprendente, al contrario delle sue sorelle più timide e riservate; non è casuale che la loro madre non si preoccupava se la piccola si allontanava da casa, mentre faceva il contrario per le sue altre figlie. Proprio per questa differenza in giorno Ines incuriosita chiese alla mamma perché non la aspettava mai quando mancava dalla loro abitazione, mentre si preoccupava tantissimo per le sue sorelle, ebbene, la risposta della madre fu: “perché tanto io so che tu torni sempre”.

Chiaramente la piccola divenne grande e non potendo andare a studiare per le modeste condizioni economiche della famiglia, andò a lavorare in una delle tante aziende tessili della zona, e a ventidue anni, nel ’44, durante uno degli scioperi effettuati in quel periodo turbolento, ci fu una retata dei nazi-fascisti, i quali cercavano gli attivisti di queste rivendicazioni. Ines fu l’unica che ebbe il coraggio di uscire dalle file dicendo: siamo tutti responsabili, se ci volete arrestare, dovete arrestare tutti !”  La morale fu che arrestarono solo lei, e venne deportata in Germania, prima a Mauthausen, poi ad Auschwitz, ma per le sue qualità lavorative venne poi trasferita nei campi di lavoro di Buchenwald, trasferimento che le salvò la vita. Finito la guerra, dopo essere sopravvissuta a una epidemia di tifo, riuscì a raggiungere l’Italia e nonostante il suo stato debilitato di salute, ebbe la forza di arrivare a casa sua proprio per dire a sua madre, quando aprì la porta: “ciao mamma, avevi ragione, io torno sempre”. Anzi, fu proprio il desiderio e la forza di voler ripetere ai suoi genitori questa frase, che la tenne disperatamente  in vita. Ma la storia, giunti a questo punto, è proprio qui che inizia.  Ines, dopo, continuò la sua vita di sempre, ma fu una delle poche, contrariamente a tanti deportati, che riuscì a ritornare nei campi di sterminio per rivedere i luoghi di tanto abominio, anzi, in una specie di viaggio iniziatico di espiazione ci tornò ogni anno , quasi a esorcizzare tata crudeltà per una riconciliazione fra vittime carnefici. Ma fece anche di più e lo fa ancora oggi a 92 anni, imperterrita e intransigente, andando nelle scuole per ripercorrere insieme agli studenti i perché di tanto orrore.
Una donna coraggiosa, unica, da prendere come esempio di ferrea volontà per un insegnamento alle generazioni che verranno, per non ripetere gli errori che la Storia, invece, puntuale, continua a ripercorrere. “TANTO TU TORNI SEMPRE – Ines Figini, la vita oltre il lager” (Melampo Editore)

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Foto1191La serata è proseguita con la proiezione di un filmato dove la protagonista di questa storia parlava in prima persona della sue terribile esperienza, anche se dalle sue parole si evidenziava la voglia di far capire come dagli errori dell’umanità, si possa trarre l’insegnamento giusto per cambiare, basta volerlo fare, perché ogni anno si celebra questa ricorrenza, ma come spesso succede, non basta un giorno solo per meditare se poi ritorniamo a litigare fra noi. Sfoderiamo ogni volta milioni di parole e puntualmente continuano gli eccidi, le stragi, le pulizie etniche, soprattutto a danno di popolazioni di cui il giorno dopo non ricordiamo neanche  nome. Ed è sempre così… sempre, come se questa memoria fosse solamente un pretesto per dimenticarci.

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Il poeta Francesco Maria Gottardi, il quale scrive in un doppio registro linguistico utilizzando il diletto brianzolo e quello trentino, ha successivamente preso la parola con la lettura di una delle sue sillogi racchiuse in un cofanetto, pubblicato nella collana dei Quaderni dell’Acàrya” i cui titoli sono: “Ul suldaa dopuduman”“Ul dé de la memòria” (letta appunto per l’occasione); “Angela (stafèta partigiana)” e  “La piana di Verdun”.  Queste poesie, che racchiudono un periodo a cavallo fra la prima e la seconda guerra mondiale, rappresentano un percorso legato ai ricordi stretti della discendenza di Francesco, in cui, fra risorgimento e trincee, deportati e resistenza partigiana, soldati aiutati ed ebrei nascosti nelle cantine dei suoi genitori,  con tutta una serie di suoi familiari coinvolti in queste vicende, era quasi doveroso per lui, decantare i ricordi di tanta storia. D’altronde, il Trentino è una terra che fra irredentismo e antifascismo, conserva ancora la fascinazione (se così possiamo chiamarla) e l’attaccamento al suo territorio, insieme alle  vicende che l’hanno coinvolta proprio nel secolo scorso e proprio per questo, l’hanno forgiata, insieme alla tenacia dei suoi abitanti.
Dovrò ritornare a parlare in seguito  di queste liriche, perché lo spessore creativo che racchiudono meritano un articolo a parte e un approfondimento importante, anche perché, come spesso succede, sono sempre le parole a lasciare dentro di noi il senso della nostra identità, inoltre, quando con un espediente narrativo, il finale di ogni poesia, diventa il titolo di quella successiva, come in questo caso, è evidente di come il poeta abbia voluto sottolineare il continuum-temporale e l’unità racchiusa nella sua versificazione.  Tra l’altro, quando sono scritte in una lingua diretta e musicale come il dialetto, legata alla realtà contadina di ogni luogo, e quando questa lingua è variegata da una scrittura qualitativamente importante, allora è giusto fermarsi un attimo ad ascoltare, per calarsi in quella sintesi che racchiude tutte le emozioni di un evento, magari semplice, magari enorme, ma sempre vicino ai colori della propria terra, in cui, la trasparenza dell’acqua e della neve, il verde della sua natura e il sangue versato per conservarla e difenderla, dove i contrasti forti dell’ambiente sempre divisi fra speranze e lotte, sogni e sofferenze, conquiste e libertà, sono alla base di un identità, anche familiare, degna di essere raccontata. In fondo, anche questa è memoria.

cofanetto de I Quaderni dell'Acàrya di Francerso Maria Gottardi

da “Ul dé da la memòria” di Francesco Maria Gottardi

La prima tusa

La prima tusa
che ha dessedaa
la müsica del cör.
E l’era ancamò zèrba…

  Incöö
la cerchi in mèzz ai stèll.

Sèmm prumetüü
‘n puntell
quand in dal praa
fiuress la prima viöla…
E l’huu speciada
tanti primaver
sura ‘l senter
che ha cugnussüü
i so pass.

  Fermass a quèll mument
l’è un stringiment da cör
cun l’ültima speranza
che la mör.

La prima ragazza / che ha destato / la musica del cuore. / Ed era ancora acerba… // Oggi / la cerco in mezzo alle stelle. // Ci siamo promessi / un appuntamento / quando nel prato / fiorisce la prima viola… / E l’ho attesa / tante primavere / sopra il sentiero / che ha conosciuto / i suoi passi. // Fermarsi a quel momento / è uno struggimento di cuore / con l’ultima speranza che muore.

Mör

Mör la speranza
e resta dumò scendra.
E l’òmm?

  L’òmm inurbii
da un credo
ciulaa ‘mè ‘na baltròca
da una ment malada.

l’òmm maledii
ogni giurnada
fen che ga sarà vus
sura la tèra.

  Gèra diventarann
i so paròll
quand hem pareil
da guèra.

Ma ga sarà un duman
che tött i fiöö dal mund
in cerc
sa stengiarann la man
in da ‘stu rebelòtt?

  In di brasc da la lüna
muriva la nòtt.

Muore la speranza / e resta solo cenere. / E l’uomo? // L’uomo accecato da un credo / violentato  come una baldracca / da una mente malata. // L’uomo maledetto / ogni giornata / fin che ci sarà voce / sulla terra. // Ghiaia diventeranno / le tue parole / quando sono parole di guerra. // Ma ci sarà un domani / che tutti i figli del mondo / in cerchio / si stringeranno la mano / in quel disastro? // Nelle braccia della luna / moriva la notte.

Muriva la nòtt

Muriva la nòtt
e nasseva ‘l dé
l’ültim da la tua vita
nònu da la mia tusa.

  E vusa in dal silenzi
ul temp senza duman

Dòpu tanti ann
in quèsta tua giurnada
da genar
ul ciel al sa refüda
da pizzà un ragg da sù.

  Té, Giüli
passa par ul camen
in una nivula da fömm
ta see restaa
Presenza.

Moriva la notte / e nasceva il giorno / l’ultimo della tua vita / nonno di mia figlia. // Ed urla nel silenzio / il tempo senza domani. // Dopo tanti anni / in questa tua giornata / di gennaio / il cielo si rifiuta / di accendere un raggio di sole. // Tu, Giulio / passato per il camino / in una nuvola di fumo / sei rimasto / Presenza.

Presenza

Presenza
che la tua vus
la turna
ul dé da la memoria.

  Ta picat a la pòrta
da cà mia
ta cercat la tua tusa…

Ma la tua tusa, incöö
la gh’ha i cavei d’argent
e ògni matina
la streng in sò man
la tua futugrafia…

  Da föra
genar al pìa.

Presenza / che la tua voce / torna / il giorno della memoria. // Batti alla porta / di casa mia / cerchi la tua ragazza… // Ma la tua ragazza, oggi / ha i capelli d’argento / e ogni mattina / stringe nelle sue mani / la tua fotografia… Fuori / gennaio morde.

Foto1193il violino di Stephan Coles ha fatto da intermezzo alle letture
eseguendo arie da film, melodie zingare e brani classici

14 Comments on “ANCHE QUESTA E’ MEMORIA

  1. ‘…nelle braccia della luna moriva la notte.’
    Quelle stesse braccia che accoglieranno un nuovo giorno, diverso, migliore. Non si muore invano sin quando vi sarà memoria.
    Io stamattina in una media di Orvieto per la proiezione de Il cielo cade con la bimba, io narrante di allora, oggi 84enne.
    Anche solo di ‘rimbalzo’ e convivere con la discriminante di essere viva xche “queste due ragazzine nn sono ebree” è stata una ferita mai sanata.

    Sheraquantelacrimexfarfiorirelasperanza

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    • hai detto giusto: non ebree… perché sottolineare questo fatto è alla base di ogni storia e di ogni ritorno della violenza, da qualsiasi parte provenga, perché noi pensiamo di riuscire a cambiare il mondo, ma il giorno dopo è tutto come il giorno precedente…

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  2. Guarda se davvero credessimo che tutto sarà sempre uguale nella tragedia del mondo, nn saremmo qui a ricordare. Facciamoci ‘violenza’ e speriamo un po’.

    sherahsohotmanellelineedifeverrr

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  3. Ho avuto i brividi per tutta la lettura. È stato molto bello anche leggere il dialetto, che purtroppo riesco discretamente a parlare ma per nulla a scrivere.

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    • certo, il dialetto, con la sua musicalità possiede possibilità enormi per un certo tipo di poesia. Giudici diceva che scrivere in dialetto è come nuotare con le pinne, perché anche con versi semplici si può arrivare a qualità particolari di bellezza e ricezione. Ma alla fine, bisogna essere bravi lo stesso, altrimenti si cade nella normalità, cosa che non succede in questo caso. Comunque chi porta avanti questa tradizione, è sempre colui che ricerca un collegamento con le sue radici o con una realtà locale degna di essere raccontata, e per questo, rivalutata.

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  4. Questa è Memoria, questa lo è.
    Ma a tanto del parlare di circostanza che ha imperversato in questi giorni il cervello mi faceva scattare l’ironica voce di Cohen: “E non riesco a dimenticare, non riesco a dimenticare ma non ricordo cosa”.
    Ciao.

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