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Sgombriamo subito il campo, questo, è uno dei grandi album dell’anno: un’apoteosi struggente e lancinante della post-modernità, non tanto nella ricerca dei suoni che devono per forza superare quelli convenzionali, perché qui è tutto convenzionale ma, è l’espressività e la tensione emotiva che trasmette a oltrepassare i confini della normalità: chitarre e violini distorti dentro a un canto ossessivo e poetico; una musica sovrapposta ad altra musica fino a compenetrarsi all’interno di una liturgia senza fine che, snaturando il concetto di spazio-tempo, travalica le dimensioni conosciute con un’intensità lirica da brividi, smolecolarizza il corpo e lo trascina al suo gorgo malato, per ricomporlo poi all’interno di un territorio dove convivono il caos e la bellezza, l’estasi e la devastazione. Dopo questa premessa si potrebbe subito passare all’ascolto del disco, per calarsi nel fondo di questo buco nero con l’incognita di raggiungere subito il punto di non ritorno, infatti, una volta inghiottiti, difficilmente riuscirete ad emergere come eravate prima d’inabissarvi, però, un lettore attento capirà che prima d’intraprendere un viaggio dantesco, avrà bisogno di una giuda per ritornare ad amare la vita, e soprattutto, a ritrovarla.

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I canadesi della Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra sono a tutti gli effetti una costola degli Godspeed You! Black Emperor, ma se i Godspeed hanno continuato a coniugare  il loro post-rock con un progressive moderno e intelligente, la Mt. Zion ha preso forma intorno a un folk-apocalittico dove convivono tutte le contaminazioni del rock e le sue varie derive. Così, dalla metafora biblica, il corpo è diventato creatura vivente, genesi impressionante di un’evoluzione nuova, catarsi di una folle corsa per diventare padroni del loro universo sonoro. Già dal loro esordio “He Has Left Us Alone But Shafts Of Light Sometimes Grace The Corner Of Our Rooms” (del 2000), fino al mondo capovolto di “Kollaps Tradixionales” (del 2010) è esplosa tutta la loro classe: un climax vorticoso concentrato dentro a suite dove la passione e il dolore si elevano a struttura compositiva, mentre il canto lacerato del  leader Efrim Menuck diventa strazio e poesia al tempo stesso, acuto e commovente apoteosi del dolore;  anche se le variazioni vocali sono spesso irritanti, portate all’eccesso timbrico delle ottave, quasi agonizzanti, probabilmente, l’evocazione della sofferenza deve per forza passare dalla nevrosi quotidiana, dal nostro desiderio di urlare ed evocare tutte le nostre paure per esorcizzare il male, o più semplicemente, per dare sfogo alla nostra rabbia… con un urlo appunto, anche se sgraziato. Ma quello che stupisce in  questo contesto, è la straordinaria sinergia di tutti gli strumenti, la convivenza di chitarre e violini come se fossero una cosa sola intorno a un tappeto musicale che diventa marchio di fabbrica: un sound unico nel suo genere, il quale riesce a far convivere folk punk, blues e avanguardia, classica hard-core.

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L’album inizia subito alla grande: “Fuck Off Get Free” di oltre 10 minuti, diventa immediatamente sintesi ed esplosione di tutto il loro dolore. I latrati della chitarra coesistono con le vibranti melodie degli archi, mischiandosi all’interno di un’apoteosi sonora  convincente e commovente al tempo stesso, mente la voce aspra di Efrim conduce tutto il gruppo dove nessuno vorrebbe arrivare, quasi a diventare l’interprete di una nuova profezia, fino a compenetrarsi con i cori che seguono il loro leader e si confondono con esso per diventare una cosa sola: “La nostra città è stata soffocata / dal giorno in cui ha ottenuto la nascita / ma c’è del fuoco nei nostri sogni…”  Con la seconda traccia: “Austerity Blies” di 14 minuti, si va ancora oltre perché, usciti subito allo scoperto, bisogna a questo punto elevarsi nelle dinamiche ritmiche di un caos apocalittico il quale, con il passare del tempo assorbe tutto il mantra trascinato dietro di loro attraverso un crescendo inarrestabile: il basso e la batteria riescono attraverso un sincopato incedere ad essere materia di fusione per tutta la band fino all’apogeo dove si vede esplodere un sole ma, l’intelligenza del gruppo riesce a creare una coda cognitiva dopo tanto rumore, per meditare vicino alla distruzione e guardare il popolo del mondo perdersi e ritrovarsi sulle spiagge di cenere, dinanzi all’oceano dell’invisibilità: “I ladri e i bugiardi governano tutto ciò che sappiamo / ma è l’amore tutto ciò che vale la pena di cantare”. Un pezzo assolutamente fantastico, e chiaramente, dopo aver raggiunto delle vette compositive di così elevata bellezza, si penserebbe a questo punto ad un calo di tensione immaginifica, invece niente, con “Take Away These Early Grave Blues” esplode ancora il loro grido malato con tutta la potenza emotiva e disperata, dentro un vortice dalle reminiscenze vagamente orientali in cui si elevano romanticismo e modernismo, per coniugare tutta la storia del blues e del rock in un’equazione semplicissima e dannatamente reale. La pausa arriva ora, con la quarta traccia: “Little Ones Run”in cui un lievissimo canto di bimbi, mitiga appena con una cantilena il cielo plumbeo dove si sta preparando il susseguente temporale, infatti, dopo soltanto due minuti e mezzo, si odono gli strascichi dei tuoni all’orizzonte.  La luce è soltanto un’illusione, l’apparente preghiera iniziale è probabilmente la paura del condannato prima della sentenza, e il boia arriva con la fierezza e la sicurezza che nessuna forza al mondo potrà cancellare l’esito di una giuria di suoni: “What We Loved Was Not Enough” di 11 minuti, parte dalle voci di un’umanità sempre in cerca della speranza di sopravvivere, mentre come sempre chitarre e violini si stendono sotto le melodie straziate di un nuovo cantico della notte: “Ci sarà la guerra nelle nostre città / e rivolte nei Centri Commerciali / Sangue sulle nostre porte / e patimenti dappertutto / poi l’ovest risorgerà”.  L’ultima traccia: “Rains Thru The Roof At Thee Grande Ballroom (For Capital Steez) si apre con l’estratto di un’intervista registrata a Fred Smith degli MC5; bisogna soltanto attendere perché “gli atomi sono ancora nel bicchiere / e i vetri delle finestre stanno ancora respirando” ma, arrivati a questo punto rimane solamente il dolore, e solo con il pianto si può chiudere il sipario, senza redenzione. 

Thee Silver Mt-Zion Memorial Orchestra
L’impressionante esito che lascia dietro di sé questo disco, è l’impossibilità di non dimenticarlo tanto facilmente, perché è ormai un mese e mezzo che l’ascolto e non riesco a toglierlo dal lettore. Ho comprato altri dischi nel frattempo ma è più forte di me, devo rimettere Fuck Off Get Free We Pour Light On Everything come se mi mancasse l’aria, perché dentro a tanto caos interiore, la bellezza diventa sublimazione di tutta l’energia che ognuno di noi può ricevere, al di là delle ossessioni e dei vagheggiamenti, delle conquiste e delle perdite. Il cuore pulsante di questa musica è qualcosa che vi rimarrà dentro come quell’abisso in cui siete caduti e in cui, come avevo preannunciato, difficilmente riuscirete ad emergere. E la guida allora… che fine ha fatto? Forse è rimasta anche lei sulla montagna ad osservare il baratro che si sta aprendo sotto i suoi piedi, prima che la montagna crolli !
Alzate il volume gente… e che l’apocalisse sia con voi !!!

il Barman  del Club

11 Comments on “THEE SILVER MT. ZION MEMORIAL ORCHESTRA – Fuck Off Get Free We Pour Light On Everything

  1. …mi sa che dovrei ascoltare altri brani….
    Non li conoscevo e non li conosco.

    Ciao Antonio
    grazie di questa “apocalisse” 🙂
    (dal min. 5.30..è davvero forte!)

    .marta

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  2. Determinate emozioni per essere espresse con sincerità e urgenza possono essere cantate così; la bellezza non è nel timbro ( che comunque non mi dispiace, e non è così atroce o ostico, non me lo maltrattare 🙂 ) ma nella poetica e nel messaggio, come hai ben colto. È un canto magnifico nell’espressione dell’ “arte”.

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  3. Pingback: I MIGLIORI DISCHI DEL 2014 per il Sourtoe Cocktail Club | Sourtoe Cocktail Club

      • Siccome mi hai incuriosito, sono andato a sentire i suoi tre album solisti, e come avevo già intuito a suo tempo sono prodotti sperimentali, spesso interessanti ma ostici e altre volte vissuti per un ascolto impegnativo. Sostanzialmente si equivalgono, però se “Plays – High Gospel” e l’ultimo “Are SING, SINCK, SING” viaggiano un po’ per conto loro, nonostante la loro unitarietà, quello di più facile ascolto è “Pissing Stars” del 2018, anche se in questo caso il vissuto personale dell’artista è veramente lacerato e ossessivo. Diciamo che sono dei prodotti artistici più che musicali. Però come sempre succede, quando un’espressività è talmente alta, diventa opera d’arte, che piaccia o meno e probabilmente almeno uno di questi andrebbe comprato. Io sinceramente prenderei quest’ultimo, anche se un po’ come successo per Nick Cave, non ci sono canzoni, ma performance costruite dentro il suo animo disperato.

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