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Un tempo la Terra era popolata da giganti, personaggi mitici che da soli scrivevano la storia del mondo e la plasmavano a loro piacimento. Dei e semidei pronti a generare sapienza e creatività da regalare agli umani, quasi a fondersi insieme, creando un ibrido dove, l’arte e la voglia di vivere, erano una sorta di dono millenario simile al fuoco, o alla ruota, o meglio ancora a quell’emozione che avvicinava un mortale alle soglie di un ipotetico paradiso. C’erano anche degli scontri fra titani ma, quest’idee contrapposte generavano a loro volta altra creatività che fecondava infiniti territori inesplorati, come se anche il sangue fosse necessario per concimare un giardino, e non un campo di battaglia. Non so se potremmo chiamarla età dell’oro o kritayuga, o più semplicemente nuovo rinascimento che, periodicamente, ritorna in una sorta di ciclo vitale necessario all’esistenza, ma sta di fatto che questi esseri hanno scritto una mitologia ormai legata ad un’idea d’eternità minima, molto vicina a noi, tanto l’abbiamo vissuta.

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Sicuramente David Byrne era uno di loro, e la sua storia dimostra come un concentrato di varie passioni può generare altezze incredibili da raggiungere, soprattutto pensando come, anche un gigante, abbia bisogno di compagni fedeli per dar vita a un’epica incredibilmente originale. Poi, come sempre succede, raggiunte le vette artistiche dell’eccellenza, non è facile riuscire ad emulare i propri passi: ormai la leggenda era stata scritta. Di conseguenza, sciolta l’allegra ciurma gaglioffa,  decide di ripartire da solo dando vita ad altre storie comuni, dove nuove e vecchie amicizie lo portano in altri territori. Forse, neanche Jonathan Swift poteva immaginarsi dei viaggi così alternativi nel mondo della musica. Sta di fatto che dopo ben 14 anni di assenza (se non si considerano le collaborazioni con Brian Eno e St. Vincent), il nostro eroe pubblica un suo album solista dalle molte attese, circondato da altri compari fidati come il già citato Brian Eno Joey Waronker, e una lunga serie di addetti ai lavori di non poco conto quali: Sampha, Patrick Dillett, Daniel Lopatin, Rodaid McDonald, Dev Hynes; giusto per per fare intelligentemente gruppo con anziani e giovani.

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E’ chiaro che queste premesse presagivano, non dico un’altra mitologia, ma un prodotto di notevole impatto, soprattutto pensando alle menti circoscritte in questo progetto, come se l’utopia americana fosse lo scenario quotidiano dove concentrare le storie di un presente fossilizzato, adatto ad essere raccontato sia in musica che in letteratura,  liberandolo dalla staticità in cui si era mummificato.  Ma non sempre le storie hanno un lieto fine… tutto si sgonfia lasciando spazio a una banalità difficile da capire, perché un artista deve percepire dove può arrivare con gli strumenti del momento e con le capacità insite nelle varie tappe dell’età adulta. Sostanzialmente l’album inizia bene, con tre pezzi che lasciano ben sperare: “I Dance Like This” (collage di melodia e intermezzi robotici fra meditazione e ironia); Gasoline and Dirty Sheets” (ottimo divagare di fraseggi e suoni tipici del suo miglior repertorio) e “Every Day is a Miracle” (dove il quotidiano emerge felicemente intorno ai suoi ritmi e ad un motivetto facile da fischiettare). E fin qui tutto bene, Byrne è il solito Byrne ma, è un fuoco di paglia, dopodiché iniziano i problemi.

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Le tracce che vanno dalla quarta fino alla decima (si salva solamente la 9 “Everybody’s Coming To My House”: il singolo del disco, che ricorda i celeberrimi “mezzobusti”) sono di una noia mortale, in cui, delle sonorità per niente adatte alla voce di David, tentano di dar voce a racconti smozzicati e presuntuosi. Qua e là ci sono delle soluzioni interessanti ma il nostro eroe canta in maniera sbagliata, riuscendo ad essere urticante e fastidioso, rovinando quella poca freschezza che ci poteva essere, perché in fondo, anche l’ottimismo a tutti i costi sa di fasullo e di appiccicaticcio. Cha dire allora? Come si fa a continuare una recensione quando il contenuto risulta così stucchevole da volersi far ridare i soldi dell’acquisto ? (si perché me lo sono pure comprato, a scatola chiusa, lo ammetto).

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tutte le foto sono prese dal web

La risposta è complicata ma va detta la verità, come se la difficile eredità del glorioso passato fosse un macigno troppo pesante da sostenere, ma il problema è proprio questo: perché tentare di rigenerare a tutti i costi quegli anni spettacolari, quando la sua caratura di intellettuale poteva sperimentare qualcosa di nuovo? Non lo so… l’utopia americana è un po’ come la storia del mondo, sempre pronto ad implodere dentro i suoi difetti mai risolti, perché alla fine siamo sempre degli umani: i giganti si sono estinti da tempo. In fondo, “Come funziona la musica”, David Byrne, ce lo aveva detto già detto.

il Barman del Club

16 Comments on “DAVID BYRNE – American Utopia

  1. Non ho avuto il coraggio di prenderlo. Un paio di amici mi dissero che che vi erano due o tre canzoni carine, il resto no. Sostanzialmente come hai scritto tu. Fra l’altro la copertina non mi ispirava anzi la trovo deludente.
    Peccato.

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  2. Ho letto anch’io il suo almanacco sulla musica. Ha sempre avuto la voglia di raschiare il limite del comprensibile con il suo sperimentalismo… Anche io ascoltando l’ultimo album ho trovato i primi tre pezzi con la giusta e matura composizione, il resto è la sua follia, a volte si tratta solo di concept che a noi viene difficile interpretare ma che per lui avrà un significato enorme… A Milano ci sarà il suo live…

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  3. Io l’ho già visto (e fu bello, intendiamoci). Il prezzo e il lunedì hanno deciso per me questa volta. Pazienza. Berrò per consolarmi.

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