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Per effettuare una recensione dell’ultimo lavoro degli Einstürzende Neubauten è necessario farla in parallelo con il loro suggestivo e particolare spettacolo che stanno portando in tour in questo fine 2014, il quale sostanzialmente è basato proprio su tutto sull’album in questione, e che io, sabato 29 novembre, ho avuto la fortuna di assistere nella splendida cornice dell’Autitorium Rai di Torino (veramente bello devo dire, perché dava la possibilità a chiunque di godersi lo spettacolo con un’ottima visuale e da qualsiasi posizione e soprattutto, con un’acustica eccellente).

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Chi conosce la band tedesca sa che il concetto di musica per loro è qualcosa che va al di là della parola stessa, perché se all’interno di essa si introducono elementi teatrali e visuali con una ricerca sonora d’avanguardia, è anche vero che nella loro ricerca si cercano delle ragioni oggettive per far discutere e pensare, o trasgredire, o ragionare a tal punto da far imprimere nelle loro divagazioni sperimentali tutto ciò che si avvicina a un olocausto del male: quello fisico e quello morale, inserendo tra l’altro un gusto dell’ironia dai risvolti veramente godevoli e intelligenti. Nei loro esordi l’industrial si vestiva dei graffiti impressi nel muro che divideva la loro nazione, o con lo zolfo e l’acciaio fuso negli altiforni delle fabbriche la quali schiavizzavano un’idea di umanità, cercando si scavare nelle ragioni opprimenti di una civiltà malata. Non è casuale che la traduzione del loro nome: “Nuovi Edifici che Crollano”, nasce proprio dalla precarietà di una industrializzazione apparentemente moderna, ma che nelle sue radici, nasconde una dimensione che di lì a poco mostrerà tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni. Infatti dagli esordi di Kollaps (1981) Zeichnungen des Patienten O.T./Drawings of O.T. (1983), passando per Fuenf Auf Der Nach Oben Offenen Richterskala; Silente Is Sexy e via via fino al penultimo album del 2007 Alles Wieder Offen, si rappresenta la parabola (non)ideale della nostra idea di modernità, o se vogliamo, quello che rimane del nostro presente: macerie su macerie. Ma queste fondamenta instabili hanno ragioni antiche, scavate nel fango delle trincee della prima guerra mondiale  e questa loro ultima performance ne è la cupa rappresentazione.
Lament nasce proprio da una ricerca su quella che in maniera altisonante e patriottica hanno chiamato “La Gande Guerra”: come se venti milioni di morti lasciati sui territori di tutta Europa, e poi trentadue milioni di invalidi, sette milioni di pazzi e altrettanti rimasti rovinati dai gas che infestarono i campi di questo scenario, fossero delle ragioni di orgoglio per enfatizzare questo terribile evento, nato solamente per  ragioni economiche, i cui strascichi durano tutt’ora.

Einsturzende_Neubauten-10_1416499861_crop_550x372Ma Lament non è solamente un progetto nato per celebrare quello che esattamente cent’anni fa sconvolse il nostro continente;  è un’opera totale che rimane appiccicata sulla nostra pelle come un’infezione e si cristallizza impedendoci nei movimenti, quasi ad evocare l’orrore che un’infinità di giovani innocenti dovettero conoscere loro malgrado.  La musica si ferma un’attimo prima di diventare musica; la melodia sembra nascere ma poi si invia su stessa come una forma di implosione; il rumore emerge prima ancora di essere veramente “rumore” e scompare senza l’impressione di un boato; la voce, le voci, si frammentano con le registrazioni originali dei prigionieri, quasi a volerle elevare a coro dismesso dietro le quinte come sottofondo. E’ come se uno spettro diventasse protagonista della sala quasi a stendere una nebbia assassina sugli ascoltatori per impedirne i movimenti e paralizzarli. Forse, e probabilmente, bisogna proprio mettersi nelle situazioni critiche dei disperati che, chiusi nelle loro paure, rimanevano perduti e soli nelle fosse scavate per uccidere ed uccidersi.

Einsturzende Neubauten--live-2014Si incomincia con l’esplosione noise di Kriegsmaschimerie, un incipit terrificante per ricordare che gli echi della guerra non si sono mai dispersi, anzi, stanno ritornando ora come allora, come se gli strumenti di tortura utilizzati da Andrew Unruh (uno dei membri fondatori del gruppo) per suonare (!) fossero proprio gli stessi mezzi utilizzati dal mondo sempre in lotta con se stesso, perché la guerra non è mai finita: “La guerra non scoppia… attende” recita la voce del leader Blixa Bargeld. E mente i rumori si affievoliscono, all’improvviso, emerge la solennità marziale di Himnen in cui, la sovrapposizione degli inni nazionali di Inghilterra, Canada e Germania (o perlomeno, sono in pochi a sapere che agli inizi del 900 queste tre nazioni avevano lo stesso inno: il famoso “God Save The Queen”, che allora era God Save The King, condiviso anche da Danimarca, Norvegia e altre nazioni), sovraincidono l’idea di queste grandi potenze, governate da monarchi intenti a non indebolirsi politicamente, mettendo in stallo l’altro; e mentre ogni due strofe l’inno cambia lingua, nelle ultime si precipita nell’umorismo nero dello scrittore Heinrich Hoffmann, il quale (autore di filastrocche favolistiche molto note in terra teutonica), mette a confronto il pranzo di un Rè a base di oche ripiene, con quello di patate e aringhe rinsecchite del suo popolo. L’ironia continua con The Willy-Nicky Telegrams in cui si ripropone, sulla tradizione caratteristica berlinese, un finto duetto mixato al vocoder, fra Alexander Hacke e Blixa Bargeld, i quali si calano nel reale carteggio telegrafico che proprio nell’anno dell’inizio della guerra, lo zar di Russia Nicholas e il kaiser tedesco Wilhelm, si scambiarono rassicurandosi l’un l’altro mentre predisponevano nello stesso tempo le loro truppe nei vari fronti. Figure grottesche di governanti che al termine del conflitto spariranno amaramente.

einsturzende-neubauten-lament-liveMa il tempo dei sorrisi finisce subito con In De Loopgraf, un battito lirico impostato su un testo dello scrittore fiammingo Paul van de Broeck (artista dada ed espressionista il quale, invece di schierarsi con le varie avanguardie, volle sperimentare la verità del fronte andandoci di persona. Non è casuale che il titolo allude ad una delle prime battaglie combattute fra l’esercito belga e quello germanico a Diksmuide), e accompagnato da un armonium suonato con il filo spianato, quasi a fare da apripista al sincopato incedere di Der 1. Weltkrieg (percussioni version), un forsennato brano dove vengono percossi venti tubi rappresentanti le venti nazioni entrate in guerra e declamate ad una ad una in una sorta di presentazione viscerale, solenne quasi, come a inscenare attraverso i vari ritmi sincopati, tutti i giorni della guerra, martellanti e maniacali nella precisione matematica rappresentata. Con la successiva On Patron In No Man’s Land scopriamo invece la realtà sconosciuta delle marching-band statunitensi: truppe di neri americani gestite dal comando francese perché la segregazione razziale dei tempi non voleva mischiare con l’esercito bianco a stelle-e-strisce, e che in una forma di pre-jazz si fecero notare, oltre che nei combattimenti, soprattutto nelle pause musicali delle retrovie, e in questo caso gli Harlem Helfighters sono ricordati mettendo in opera un cantato simulante i suoni di un combattimento che si fonde con il funereo incedere di Achterland (ancora da un testo di Paul van de Brock), mentre la “maschera” di un invalido subentra come contraltare dell’ipocrisia e un compressore d’aria simula le disinfestazioni tentate nelle terre contaminate dall’odio.
Va detto che la strumentazione: una sezione d’archi miscelata alla base ritmica, insieme alla distorsione delle chitarre, del cantato, del recitato, e all’unione con la sperimentazione rumoristica, basata soprattutto sulle registrazione integrate con la ricerca effettuata negli archivi sonori della Humboldt University di Berlino e della Radiodiffusione di Francoforte, si integra perfettamente con lo spettacolo che trascende dal concetto puro di “concerto”, interferendo senza appesantire tutto con troppa enfasi, ma partecipando all’estensione dell’idea originale come un tutt’uno, quasi a far da corollario ai testi dell’opera senza disturbare, diventando invece disturbante quando la drammaticità  dell’insieme andava sottolineata.

German band Einstuerzende Neubauten performs on stage in PragueA questo punto ci si addentra nel momento clou di questa dimensione parallela con i tre pezzi cardine del contesto: Lament; Abwärtsspirale (lament 2) Peter Pecavi (lament 3), come se il paradosso temporale ci scaraventasse improvvisamente in questo teatro disperato, dove, i micidiali gas utilizzati dalle varie parti come arma di distruzione, diventassero improvvisamente musica da inalare: cupo lamento che, nel secondo movimento, si trasforma in una spirale senza speranza verso il basso: altra musica che arriva alla gola, e blocca il respiro prima della processione dei fantasmi. Nel terzo movimento infatti (costruito sotto forma di “mottetto” del compositore rinascimentale Jacobus Clemens, vissuto proprio nei luoghi dove si svolgeranno poi queste vicende), inizia la serie delle registrazioni delle voci dei prigionieri detenuti in Germania (provenienti dagli archivi della ricerca di cui ho parlato sopra) nell’alternanza delle varie lingue e dialetti, come se il multilinguismo delle provenienze ampliasse l’orrore in cui era precipitata l’Europa. Un’accorata elegia senza speranza in cui le atmosfere superano qualsiasi sfogo legato ad una percezione di pianto, perché si rimane inorriditi davanti alla pazzia e all’annullamento, come se la parabola del “figliol prodigo” in questo frangente recitata, fosse una dinamica ancora più assurda della storia raccontata. Ma se non c’è più speranza, cosa rimane allora? Non rimane che descrivere in quanti modi si può morire, infatti con How Did I Die, adattando il testo della canzone del giornalista e poeta Kurt Tucholskj (dalla sua esperienza in prima linea), scritta appunto durante la prima guerra mondiale per umiliare il comandante dell’esercito tedesco Ludendorff, dove si parla di come ogni morto tornerà a perseguitarlo, l’intervento di Blixa Bargeld rielabora proprio sulle tematiche assurde di come perdere la vita.
Lo spettacolo prosegue con Sag Mir Wo Die Blumen Sind, altro adattamento, questa volta della canzone di Pete Seeger resa celebre dalla versione di Maelene Dietrich, che molti tedeschi bollano ancora come traditrice per la sua “fuga” a Hollywood fra le due guerre, e per le sue posizioni intraprese successivamente. Ma in questo caso i Neubauten vogliono avvalorare l’affermazione che la prima guerra mondiale è proseguita anche dopo la sua fine e che l’intransigenza di altri sottolinea la consapevolezza che la guerra dura tutt’ora. Così, giunti a questo punto, se la guerra non è mai finita, si ricomincia con il rito della propaganda ripartendo dal 1914, per finire nel 1920 quando Hitler fa la sua prima apparizione, utilizzando un testo che il drammaturgo Joseph Plaut eseguiva insieme alla moglie Maria Schneider nei cabaret berlinesi proprio in quel periodo: Der Beginn Des Weltkrieg 1914 è infatti uno spietato resoconto in cui tutti sono visti sottoforma di animali, perché alla fine l’arrivo del pavone simboleggia la sagoma del futuro gerarca.  Ironicamente, e in un certo senso, amaramente, il tutto si conclude con All Of No Man’s Land Is Ours. riprendendo un pezzo della marching-band degli Harlem Helfighters portati in trionfo dall’esercito statunitense, ma che una volta ritornati in patria, ripiomberanno nella più oscena segregazione razziale esistente in America in quel periodo, giusto per farli cantare: “…abbiamo conquistato la Terra di Nessuno, abbiamo conquistato la Terra di Nessuno”.

German band Einstuerzende Neubauten performs on stage in PragueSi conclude così, dopo un’ora circa, uno spettacolo difficile e affascinate al tempo stesso, che scivola via senza stancare mai, anzi, si avrebbe voglia di andare avanti a seguirlo come quella guerra non ancora finita, esorcizzando con la potenza dell’arte tutte le questioni ancora irrisolte della nostra prepotenza. Gli Einstürzende Neubauten concederanno poi un’altra mezz’ora di bis in cui spiccherà fra tutte Let’s Do It A Dada, giusto per accontentare il numeroso pubblico e per completare nella durata, un concerto (se così possiamo chiamarlo) nella sua pienezza complessiva.
Rimane la bellezza di una performance che il gruppo non vuole che sia attribuita solamente con il loro nome, perché rappresenta sostanzialmente un lavoro di ricerca quasi documentaristico, variegato sia per diventare qualcosa che vada al di là della mera messa in scena. Non a caso, commissionato dalla città di Diksmuide, ha obbligato il loro leader Blixa Bargeld ad intraprendere un lavoro quasi sempre rifiutato da un’idea di adolescenza cresciuta in una nazione divisa politicamente, ma che gli è servito proprio per capire le ragioni di un processo che non è mai finito, scavando in quelle trincee per ritrovare il marchio aberrante di una parola che va al di là del singolo evento, per quanto tragico. E se nulla avviene per caso, la sua, la loro, la nostra consapevolezza raggiunge la convinzione riproposta nei vari momenti della serata come ammonizione e avvertimento: “la guerra non è una cosa che compare e scompare, la guerra è sempre lì, fra di noi”. Un messaggio importante lanciato in mezzo a della gente cresciuta in tempo di pace, dentro una pace che in fondo è un’utopia.
“Voglio essere un disertore / rompere le regole /si / raggiungere l’altrove / perché l’avanguardia non può essere avanguardia una volta stabilita / L’avanguardia è la via del ritorno / per questo sono felice di essere un partigiano / attendere nel bosco e poi / al momento giusto / venire all’attacco…”

einsturzende neubauten- live-torino-5Tutte le foto sono prese dal web

Fondamentalmente, se una forma di espressionismo lirico può diventare poesia di denuncia attraverso l’alterazione che pone di fronte vittime e carnefici attraverso le dimensioni storiche, allora, in senso circolare, potremmo concludere ritornando all’immagine della copertina dell’album in questione, la quale, sotto forma di monito ci porta verso il celeberrimo incipit di uno dei capolavori della letteratura che tutti conosciamo a memoria, perché, se non capiamo il senso del buio che potrebbe calare intorno a noi, sappiamo dove potrebbe continuare il viaggio, e questa volta, senza ritorno.

il Barman del Club

21 Comments on “LAMENT – Einsturzende Neubauten – Live Auditorium RAI di Torino

  1. Non so cosa dire: prendere atto di questa tua avvolgente recensione, invidiati molto ma neppure tanto xche alla fine è come se ci fossi stata.
    Sherabuonanottementrefuoripiove

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      • E dimentichi le “bombe ” d ‘acqua.
        La grande guerra io l ho sempre letta nella sua accezione di disastro umano, l’ultima guerra di contatto e di contrasto. Trincee di fango e assalti alla baionetta. Cavalli e muli.
        Vita pulsante. L eroismo delle vedove di guerra.
        Canzoni disperate. Lettere dal fronte.
        “Partire partirò partir bisogna dove comanderà nostro sovrano…”
        Mussolini ha detto…troppe ne ha dette.
        Sherancorapiove

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  2. Lennon: Pensate che dichiarino una guerra e nessuno ci vada.
    Però alla fine ci andiamo. Arruolati a forza o per la paga i più altri per passione.
    Mussolini diceva di non aver inventato il fascismo ma di averlo solo tirato fuori dagli italiani.
    Lo stesso è per la guerra, stringi stringi i popoli ce l’hanno dentro.

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  3. insisto la guerra appartiene a chi schiaccia i bottoni. Ai politici che decidono sullo scacchiere. Poi ci sono i fanatici.
    Mio padre è stato ucciso in una ‘vera’ missione di Pace Onu a Kindu: tutti trucidati. Una stele li ricorda all’ingresso dell’aereoporto Leonardo da Vinci di Roma. Era aviatore, fiore all’occhiello della pattuglia acrobatica, ufficiale di carriera con idee di sinistra, non era un eroe, ha fatto soltanto il suo dovere, quello che dall’alto gli era stato ordinato. Ed è anche morto al posto di… per sostituire l’altro comandante che aveva un impegno familiare.
    Scusate lo sfogo.
    Un bel film nn so se lo conosci e credo piacerebbe molto a Giulia, War Horse di Spielberg.

    shera

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    • la tua storia personale è perfettamente in linea con questo post e mi spiace molto per la sorte di tuo padre perché ho letto di quel tragico evento che conosco. Penso proprio che tu abbia ragione: la guerra la fanno proprio quelli che giocano ai “soldatini” mandando al macello degli innocenti verso altri innocenti.
      Nessun sfogo… è tutto legittimo (!)
      Il film non l’ho visto (riparerò)
      Grazie a te…

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  4. Se l’immaginario popolare avesse trattato la guerra e i suoi simboli come ha sempre trattato gli omosessuali e i codardi, i “debosciati”, come gli stessi Neubauten si presentavano in gioventù e le “mezze seghe” sarei più convinto che la guerra non sia in noi.
    Dal tornare con lo scudo o sullo scudo ma non senza, al “meglio un figlio morto che un figlio frocio” non c’è distanza. Le gay parade ci danno fastidio, anche a me a pelle, le parate militari, invece, portiamo i bambini a vederle. Ad applaudirle. Evviva i soldati! Ma quelle armi, quei mezzi, quegli aerei sono stati costruiti con una funzione precisa. E che cazzo non lo sappiamo a cosa serve un fucile da guerra?
    Beviamo qualcosa và, cosa hanno suonato nel bis, oltre a Dada?

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    • Nei bis oltre a DaDa hanno suonato, tanto per rimanere in tema. “Armenia”, “Ich” Gehe Jetzt” e altre due che non ho riconosciuto.
      Per quanto riguarda le parate militari invece, io sono uno di quelli che al giuramento che ci fecero fare a naja grido: “ce l’ho duro” (e allora era duro davvero); e al di là dell’ironia delle donne presenti che ci chiesero perché si era sentito un grido tipo: “lo guro!!!!!!!!!!”, rimane sempre quella convinzione della manipolazione di un ventenne e di tutti i ventenni del mondo, i quali, se ne fregano della guerra (e giustamente pensano alla gnocca) anche poi ci fanno sempre vedere di come sono belli gli aerei… i carroarmati… le armi… il fascino della divisa… ecc… ecc… Probabilmente se la guerra è dentro di noi è perché qualcuno continua a ficcarcela nelle nostre viscere.
      Io vado ad ascoltarmi la canzone di Boris Vian che ti regalo nella versione di Fossati

      P.S. A proposito, lo sai che durante lo spettacolo di Roma, Blixa Bargeld si è rotto una gamba e che i Neubauten sono stati costretti ad annullare le successive date del tour? Chissà d’ora in avanti cosa diranno i complottisti… ?

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  5. due considerazioni:

    1) questo tuo blog meriterebbe un seguito ben più sostanzioso

    2) la chiave di lettura “guerra” si articola su tre livelli: a) se obblighi un soldato a farla penserà principalmente a portare a casa la pelle, b) se lo paghi bene farà certamente qualcosa di buono ma non più di tanto, 3) se gli sciacqui il cervello e lo rendi “fanatico” darà la vita per la causa e si trasformerà in un martire didattico.

    Non dimentichiamoci che le cartine geografiche sono state tracciate dalle guerre, viviamo in una epoca di interpretazioni storiche distorte, Giulio Cesare, Gengis khan, Napoleone, Alessandro Magno e tanti altri vengono considerati grandi condottieri, strateghi illuminati, in realtà erano dei carnefici pazzoidi peggiori di Hitler. Il dominio e la sopraffazione sono virus inestirpabili che infetteranno per sempre l’umanità, un tempo si sottomettevano i popoli tagliando teste e devastando, oggi lo si fa attraverso le strategie gestionali politiche e industriali, non ci bruciano più i villaggi ma ci uccidono col cancro, con virus creati in laboratorio e con la manipolazione delle menti.

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    • Hai proprio ragione, tra l’altro la tua considerazione sui nomi che hai fatto mi fa venire in mente Giulio Cesare che per conquistare la Gallia sterminò un milione e mezzo di persone: praticamente un terzo dell’umanità conosciuta di allora; eppure lo idolatriamo e lo ricordiamo in tutte le città dove non manca una via con il suo nome, mentre come ha detto giustamente Mieli non esiste una via con il nome di Bruto o Cassio. Se poi ci mettiamo a decantare le imprese degli altri “condottieri” citati, allora ci vengono altro che brividi. Sostanzialmente la Storia è tutta legata alla sua manipolazione fatta dai vincitori, e il successivo indottrinamento delle masse è l’ideale prosecuzione della guerra stessa… Ne vedremo delle belle se ora le strategie sono diventate più subdole e oscure.

      Ti ringrazio per la considerazione del punto 1) ma in fondo va bene anche così… nei bar la gente beve e se ne va, poi, ogni tanto, c’è sempre qualcuno che si siede al bancone per fare due chiacchiere, e un barman che si rispetti lo ascolta volentieri dialogando anch’esso…
      Salute a te !!!

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