I Sault sono un collettivo londinese di cui si conosce pochissimo, i quali, nel giro di soli due anni, sono giunti al loro quinto album: “Five” e “Seven” nel 2019; “Untitled (Black Is)” e “Untitled (Rise)” nel 2020, fino a quest’ultimo “Nine“, quasi a seguire un’ordine dispari nella loro numerazione. Tutti scritti con dei fiammiferi.
La loro connotazione è tutta concentrata su una musica tipicamente black, in cui funky, rhythm and blues e una forma ibrida fra rap & spoken word si fondono dentro un soul moderno, ritmato, misurato e viscerale al tempo stesso, dove convergono tutte le dinamiche del mondo di colore, soprattutto quelle relative alle diseguaglianze e alla quotidianità complicata delle periferie di una metropoli estesa come la capitale britannica. Quello che colpisce è come sono riusciti a circoscrivere la rabbia in un sound inaspettato per le tematiche narrate, in cui, la sovrapposizione delle melodie stende un tappeto di perfezionismi dove dolcezza e malinconia spesso s’incontrano. In fondo, come diceva un cantautore di casa nostra, è proprio dal letame che nascono i fiori.
Sta di fatto che siamo di fronte a un prodotto che al primo ascolto scivola via come un sottofondo da lounge-bar, accattivandosi il retrogusto un po’ afrobeat e un po’ jazzato, facendo venire il sospetto che l’ottimo lavoro di produzione, insieme al mistero che circonda i suoi componenti, sia tutta una strategia per creare non tanto dei personaggi alla Banksy, ma una sorta di ensemble che si rifà alla gente qualunque, mitizzandola. Poi, in realtà, se ravaniamo in rete scopriamo che dietro a questo progetto c’è un certo Dean Josiah Cover, già produttore dei Little Simz, Jungle e altri protagonisti del circuito nu-soul e neo-r&b di questi ultimi anni. Inoltre, dietro le canzoni c’è una certa Cleopatra Nikolic o CleoSol che presta anche la sua voce insieme alla rapper Kid Sister (Melisa Young), con la collaborazione di personaggi come Kadeem Clarke, Laurette Josiah e Michael Kiwanuka. Per il resto buio assoluto, anche sul nome della “band”, il quale sembrerebbe un acronimo. Niente interviste, niente concerti, niente foto, come a ribadire che l’anonimato della gente di colore fa parte della loro storia e delle strade dove sono cresciuti.
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Le leggende nascono anche così e continuano sulla via tracciata, perché così facendo c’è tutta la possibilità di inventare e di variare la creatività senza per forza soffermarsi su un’idea, ma si amplificano le possibilità, album dopo album, per un’estensione multicolore che può abbracciare Africa, America ed Europa senza distinzioni, usando collaboratori diversi e svariati protagonisti ben consci di appartenere a una comunità coesa per un valore artistico.
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Quest’ultimo disco è sicuramente d’ascoltare, come d’altronde tutti i loro precedenti, anche perché la piacevolezza delle tracce diventa via via un’iniezione di vita, soprattutto pensando al fatto che non siamo travolti da una mitragliata di rappate gridate e urlate, ma a una miscela geniale di ritmi e controritmi insieme a delle voci sublimi, le quali premiano la bellezza dell’ascolto insieme al significato dei temi. Poi, possiamo anche scomodare il movimento del Black Lives Matter; l’impegno e il divertimento di Fela Kuti, la poliedricità dei Parliament, cinquant’anni di black-music concentrata in un angolo di Londra, ma alla fine ci troviamo di fronte a delle poesie di strada che in questo caso riecheggiano delle filastrocche infantili: delle favole, inizialmente tragiche (come tutte d’altronde) e poi edulcorate per essere lette ai bambini, dove è presente sia il dolore e sia la felicità, diventando poi terribilmente adulte: dolci e acide come un cocktail in cui qualcuno a aggiunto della soda caustica insieme al gin. Le liriche sono davvero da seguire: velluto e carta abrasiva, secche ed essenziali quanto basta per raccontare la propria verità.
Ancora una volta i Sault scendono nei loro quartieri, nella loro tradizione sempre legata al significato della parola “blues”, in cui il dolore si trasforma in melanconia, e la melanconia in musica, per esorcizzare la sofferenza e cantare la loro rivalsa come un’epica semplice, senza mai arrendersi, divertendosi. “…Un giorno ce la farai / un giorno sarai libero / prima di perderti non dimenticarti di sognare / puoi sempre ricominciare daccapo…”.
E noi ricominciamo a bere: salute ragazzi!
il Barman del Club
Bel post, descrive bene, prendo nota.
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Penso che meriti, ma anche i loro dischi precedenti sono buoni.
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Io lo trovo bellissimo questo disco, piacevolissimo e dal bel ritmo. Grazie, Bro. E ora cosa ci beviamo sopra?
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Allora… ci vuole qualcosa che trasmetta tanta dolcezza nata da una sofferenza superata. Io penso che un Long Island Ice Tea sia quello giusto, proprio perché la classe non è acqua, e l’unione di tanti retrogusti forti come il gin, la tequila e la vodka, si sposi bene con la dolcezza del rum e della cola, con un pizzico di limone. Salute, cin cin !
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Ok, ci sto! 😊
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Perfetto!
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gran disco, confermo!
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sono contento!
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a me la solita Union, grazie!
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Eccola !!! Anche due se vuoi?
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sì, ottima e abbondante, ben fresca eh!?
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Ci mancherebbe…
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a rigor di logica il prossimo potrebbe chiamarsi Eleven, e se ha tracce sontuose come Bitter Streets sarà ancor più gradito
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Vero… Allora lo aspetteremo con ansia (!) Intanto ci gustiamo insieme una Union: salute!
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alla tua!
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Come si dice: La classe non è acqua, in quanto al brindisi, sceglilo tu!🎈🎉
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😀 Andiamo sul classico: un bel prosecco non guasta mai… anzi!
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