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Finalmente dopo sette anni di assenza è ritornata sulle scena la ragazza del Dorset ora cinquantenne, con alle spalle una carriera veramente speciale quasi senza eguali, aggiungendo un altro gioiello alla sua collana di capolavori. Non è casuale che quest’ultimo disco dimostra la sua maturità artistica, soprattutto nel pubblicare degli album che vanno notevolmente al di là della semplice musica, perché la sua ricerca sconfina in altri territori come la poesia, la letteratura e il teatro. Tra l’altro queste espressività non solo si equivalgono fra di loro, ma si esprimono attraverso una sinergia che li eleva insieme alla strumentazione di base, proprio per diventare, soprattutto in questo “I Inside the Old Year Dying”, un contesto avvolgente, dove il termine di opera d’arte non è per niente qualcosa di sopravvalutato, anzi.

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Il tutto inizia proprio da una ricerca poetica culminata nel poema Orlam, che PJ ha dato alle stampe  l’anno scorso e costruito attraverso la rielaborazione dell’idioma dialettale, proprio del Dorset, la sua terra d’elezione. Inoltre, ibridandolo con l’inglese classico, c’è stata la consapevolezza di recuperare l’antica tradizione di queste sponde ubicate nel sud della Gran Bretagna, e della loro parlata ricchissima di contenuti. Il contesto mitico rielabora una certa tendenza anglosassone nella narrazione di trame sempre a metà fra il favolistico e il trascendente, anche se in questo caso potremmo definire la fatica della Harvey come un poema epico di formazione, in cui, una protagonista bambina viene a contatto con orrori perversi, spettri e magia, dei e semidei perduti nella campagna di queste zone, insieme ad animali dalla parvenza umana e perennemente divisi fra sesso e sapienza.

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Chiaramente, la sua trasposizione musicale rielabora una forma allucinatoria tipica del sogno, facendola diventare una miscellanea di folk, blues, ambient, elettronica, field recording o registrazioni sul campo, come si dice, proprio per la creazione di ricordi che ella stessa ha probabilmente vissuto nella sua adolescenza, fra scoperta e rivelazioni, attraverso quel processo che porta dalla purezza infantile ai riti d’iniziazione alla vita, con tutte le sue evoluzioni e le sue disavventure, anche se in questo caso sono rivisitate in chiave leggendaria e metaforica. Inoltre, il dialetto arcaico con cui sono narrate queste storie, conferisce anche nella difficoltà di un’eventuale traduzione, di costruire un processo narrativo tra il farsesco e l’inquietante, attraverso la visione di una realtà distorta. Termini come scrid, gawly, mampus, inneath, chammer, charken, nonostante il glossario aggiunto per decodificarle, finiscono per alzare un’atmosfera plumbea in cui le nebbie e il sole si alternano inconsapevolmente.

Link traccia d’ascolto
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Tutto l’album è registrato insieme agli inseparabili compagni di avventura: Flood, John Parish, Ben Whishaw e Colin Morgan, con la partecipazione straordinaria del costumista Todd Linn e del regista teatrale Ian Rickson, i quali negli spettacoli dal vivo avranno una parte importante. Poi, tutte le tracce seguono un ritmo cadenzato sempre in equilibrio fra ispirazioni avvolgenti e accenti noise, strutturati con un impianto apparentemente improvvisato, ma rigorosamente ripreso nelle sue coordinate melodiche. Probabilmente, la differenza fra il poema vero e proprio e la stesura del disco, sta nella trasposizione strumentale della forma-canzone, la quale prende vita propria e diventa qualcosa di funzionale, anche nel falsetto della protagonista che sembra sciogliersi tra le brughiere di quelle campagne, appellandosi alle oniriche visioni quasi ininterrottamente. Inoltre, se i riferimenti a Shakeespeare, Keats, Coleridge, sono evidenti, si arriva anche a citare Elvis come l’unico del nostro tempo inserito nella narrazione.

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Siamo di fronte ad un equilibrio diviso fra lo straniante e un’epifania di suggestioni dall’impianto ipnotico ed esoterico, dove tutta la messinscena scivola e riemerge abbracciando nello stesso tempo il buio e la luce, come se la nostra quotidianità si sciogliesse lentamente in una fiaba dalle tinte nerissime.
PJ Harvey ci dimostra ancora una volta che il mistero si può piegare alle vicissitudini della vita proprio per superarlo, creando una serie di atmosfere che sono alla base dello stesso, e proprio per questo adatte allo scopo senza reinventare niente. In fondo, se il mondo o il confine che sta sopra di noi è talmente vicino che può essere superato, a volte, basta una semplice armonia e qualcuno che la canti.
Alla prossima ragazzi…

il Barman del Club

22 Comments on “PJ Harvey – I Inside the Old Year Dying

  1. Lo sto ascoltando a ripetizione, album bello, intimo, profondo ed originale nella sua essenzialità. Uno dei miei dischi dell’anno.
    Fra l’altro in alcuni brani PJ usa la sua voce sempre con nuove interpretazioni.

    Piace a 3 people

  2. “Siamo di fronte ad un equilibrio diviso fra lo straniante e un’epifania di suggestioni dall’impianto ipnotico ed esoterico, dove tutta la messinscena scivola e riemerge abbracciando nello stesso tempo il buio e la luce, come se la nostra quotidianità si sciogliesse lentamente in una fiaba dalle tinte nerissime.”
    Mi sono letteralmente innamorata di questa frase.
    Un equilibrio che invidio, un equilibrio che io non avrei nemmeno saputo spiegare nonostante io lo stia inseguendo.
    Poi ho ascoltato le canzoni.
    GRAZIE davvero.

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  3. Quest’ultimo di PJ non lo conosco, debbo dire… ma To Bring You My Love resta a mio avviso – assieme a Universal Mother della meravigliosa Sinéad – IL disco al femminile degli anni 90’s. Ma se il barman dice che merita, andrò a curiosare… 😉

    Piace a 1 persona

    • Curiosare non cosa niente: ultimamente PJ sta facendo un lavoro di ricerca che non schiaccia l’occhio al commerciale, anzi, proprio il contrario e proprio per questo va affrontato con interesse.

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