+ 01) Canned Heat – musica tossica (rock e dintorni), 12) Long Island Ice tea – la classe non è acqua (grandi artisti)
La poesia oscura di Mark Lanegan
Ci sono artisti che sono capaci di crearsi intorno, inconsapevolmente, un’aura di culto, soprattutto quando quell’aura ha un sapore maledetto, blasfemo, cupo, oscuro. Sarà che il pubblico s’innamora di queste figure, mitizzandole fino allo stremo, idolatrandole proprio perché trasmettono una configurazione del male vissuto in prima persona e offerto come un’ostia sconsacrata, adatta per immaginarsi nel salotto di casa le scorciatoie della trasgressione: un desiderio che ognuno di noi ha dentro e che mai abbiamo messo in pratica. Lo sappiamo da sempre, anzi, fin da bambini, quando la voglia disubbidiente è una forma di resistenza verso chi è sopra di noi: genitori, insegnanti, politici, tutori dell’ordine e della legge; come se il male s’identificasse nella reazione anarchica verso una serie d’imposizioni che non accettiamo. Poi, qualcuno si adatta e altri no. Tanti si adeguano, pochi si ribellano. Ed ecco che emergono le figure di quelli diversi da noi, anzi, psicologicamente uguali, come se l’abisso che li ha inghiottiti fosse un film di finzioni che noi assimiliamo proprio perché le riteniamo tali, e che invece sono fottutamente reali. Come a dire: mentre loro si distruggono, noi assistiamo quasi morbosamente alla loro fine, consapevoli di non esistere in quel mondo, ma che idealmente avremmo voluto viverlo anche solo per un momento. Mark Lanegan era uno di questi ribelli, e noi lo abbiamo amato.
Di fronte al miracolo dell’Arte o nel cuore dell’Arte stessa, noi abbiamo un sussulto, un mancamento. Siamo travolti dalla sua vibrazione fino a subire una forma di deliquio. Ci meravigliamo quando il fascino estremo di ogni sua espressività ci commuove o ci coinvolge dentro a tutte le emozioni possibili. Siamo vicini tanto alla vita come alla morte, nel senso che un flusso d’eternità ci attraversa e ci eleva oltre ogni forma di trascendenza. Non a caso Stendhal e come lui altri protagonisti della nostra Storia, hanno provato questo sentimento estremo fino a immergersi dentro al flusso ininterrotto della loro sensibilità, partecipi alla percezione della bellezza che li ha coinvolti e sedotti. In fondo, è un po’ come l’innamoramento: un’esplosione di sensi che ci travolge. Ecco che il poeta Angelo Maugeri si pone di fronte a questo stupore, come se il caos che l’ha generato, sia un binomio insostituibile nella successiva forma di equilibrio che porterà alla genesi delle sue parole: “Lo stupore e il caos“, appunto, titolo della sua ultima raccolta di liriche.
La poesia si sa, ha la capacità di assorbirti completamente, di ammaliarti, soprattutto quando si crea un interscambio reciproco fra le parti, un binomio imprescindibile generato dallo stretto rapporto autore-fruitore, come un’appartenenza, un gemellaggio artistico, una melodia che ti attraversa e la fai tua. E in un mondo caotico come il nostro, cosa c’è di più bello di un attimo di stupore? Probabilmente anche il nostro protagonista, prima ancora di regalarci le sue liriche, si è lasciato affascinare dai suoi stessi versi, creando quella vibrazione necessaria per la sua vitalità. Queste poesie lo dimostrano attraverso il flusso della loro musicalità, come se ogni parola, ogni frase, e nell’insieme anche ogni loro gesto, diventa o diventano un tessuto multicolore per un viaggio interiore alla scoperta dell’io e dell’intelletto. È come se il magma della loro origine, diventasse una forma che via via prende corpo, fino a diventare, prima, la percezione di un’idea, e poi, la raffigurazione dell’estetica.
IL DONO DELLA PAROLA
Le nostre storie
cercano ancora la trama dei racconti
come un rito nel chiederci
chi siamo e dove andiamo
parlando di ventura
Ritorna sulle scene una delle band più interessanti del panorama americano, e che per un decennio e poco più ha incendiato le notti newyorkesi con dei live infuocati. La loro miscela di shoegaze, noise, psichedelia e wave è stata talmente trascinante da risultare uno degli eventi più suggestivi, dopo la famosa stagione punk intorno alla leggenda del CBGB. Non è casuale che il loro avvento ha dato il via a un seguito sempre carico di aspettative, come se il culto della loro apparizione avesse aperto una nuova porta dove trovare quello che si cercava da tempo, nonostante l’impatto disorientante dei loro riff, sempre vicini al confine che separa il rumore puro con la bellezza. E anche il questo loro ultimo lavoro: il sesto in ordine di apparizione, la trascendenza del suono vende la propria anima al diavolo, come una catarsi esplosa improvvisamente all’interno del nucleo che l’ha generata.
Continua a leggere “A Place To Bury Strangers – See Through You”
Tanto per rimanere dentro la nuova ondata post-punk britannica, una band osannata da tutta la critica dall’inizio del nuovo anno, è proprio questa originaria di Leeds: fertilissima città dal punto di vista musicale. Non è casuale che il loro album d’esordio capeggia nei vari portali del settore, per tutta una serie di ragioni, concentrate intorno alla capacità d’incidere con una scrittura sarcastica all’interno del sistema d’oltremanica, facendolo risultare grottesco. Tutta l’espressività artistica di questi ragazzi ruota intorno a questo modo d’intendere le cose: rigirarle, capovolgerle utilizzando un’ironia tagliente, proprio per contrabbandare una rabbia fuori dal comune, facendola passare come un’invettiva cabarettistica, ma in realtà affilata come una lama che non lascia scampo. Prima si sorride, e poi ti accorgi della pugnalata.
+ 01) Canned Heat – musica tossica (rock e dintorni), 44) Horse’s Neck – Così non si uccidono neanche i cavalli
Snapped Ankles – Forest of Your Problems
Nell’ultima ondata neopost-punk britannica, una band che ha deciso d’intraprendere un percorso diverso anche se parallelo, è proprio questa dal nome stravagante e dall’altrettanto insolita miscela, che riesce ad accomunare divagazioni kraut, ritmiche funky, inflessioni wave e contaminazioni elettroniche dall’impatto effervescente; e forse, proprio per queste loro divergenze, la loro non-collocazione li ha resi talmente diversi da risultare famosi in senso più obliquo delle altre. Tra l’altro, esibendosi sempre mascherati e non conoscendo la loro identità, tutto questo alone di mistero dall’impatto tribale (i loro travestimenti riecheggiano un animismo dal retrogusto ecologico), ha fatto si che il loro pubblico si è automaticamente scremato in senso positivo, ma nello stesso tempo sono diventati dei protagonisti di nicchia, insieme ai loro spettacoli sempre vicini ad un impatto multimediale e uno scatenamento techno-dance altrettanto coinvolgente.
Continua a leggere “Snapped Ankles – Forest of Your Problems”
Proprio per esordire nelle recensioni del 2022, la performance live di questa meravigliosa interprete, direi che fa al caso nostro per tutta una serie di ragioni. Non tanto perché il dolore e lo struggimento, la pace e l’orrore, il sangue e la poesia, fanno parte di questo tempo: in fondo, da quando esiste l’umanità siamo circondati da questo teatro, o se vogliamo essere più didascalici, da questi sostantivi. La risposta è tutta circoscritta, come ho già anticipato, dalla performance di quest’artista svedese: assolutamente da brividi! Capace di assimilare la presenza scenica di Diamanda Galas, il temperamento di Susan Janet Ballion, la follia di Kristin Hayter, la capacità vocali di Kate Bush, la ricerca formale di Lisa Gerrard e la maestosità di Jansen Floor o di Amy Lee. Anche se poi, tutte queste influenze si concentrano in uno stile molto darkwave, dalla sostanza gotica per intenderci, in cui la voce diventa protagonista indiscussa.
Continua a leggere “Anna von Hausswolff – Live At Montreaux Jazz Festival”
photo by Hengki Koentjoro
Queste liriche sono state estrapolate da un calendario del 2022 in edizione limitata della Helicon Edizioni, tutte interamente dedicate alla scomparsa del figlio di Maria Grazia Duval: poetessa straordinaria e amante della cultura a 360°, di cui ho avuto l’onore di avere una recensione sul mio ultimo libro, ma che in questo caso emergono in tuta la loro bellezza, sia per capacità musicale e sia per spessore qualitativo veramente alto. Il dramma si trasforma in un’elegia di una delicatezza estrema, la quale si adagia attraverso un lentissimo blues dai contorni immaginifici e dalla sospensione che lasciano senza fiato, talmente siamo trasportati da queste onde sonore, come se fossero un soffio di fronte all’universo.
Continua a leggere “Un figlio non muore mai – di Maria Grazia Duval”
Solitamente, conoscendomi bene, durante le feste mi regalano sempre libri e dischi, perché, nonostante ne abbia la casa piena, per me è sempre una goduria. Solitamente non lascio mai indicazioni, e accetto ogni dono come qualcosa di meraviglioso, perché la bellezza della sorpresa è alla base del piacere stesso. Facciamo allora una breve carrellata di queste edizioni, fra graphic-novel, romanzi e poesia, giusto il tempo per una chiacchierata in compagnia.
Continua a leggere “Graphic-novel e libri per tutti i giorni”
Nel giorno dell’anniversario più conosciuto a livello mediatico di questi ultimi anni, personalmente, preferisco ricordarlo con questa splendida canzone dei Car Seat Headrast, perché la risposta della musica è sempre la migliore.
Cos’è la bellezza dell’arte? La magnificenza di un tratto, di un colore, di un’immagine che diventa icona: meraviglia da guardare, da gustare, d’ammirare fino all’ipnosi involontaria. In campo musicale il “vinile” possiede questa particolarità, e se poi diventa album apribile, il prodotto possiede la capacità di trascinarti nel suo interno mentre ascolti le sue note, fino al deliquio conclusivo. Ed io, che amo la parola, la sua immagine, la sua musica, il suo contenuto, non posso che rimanere coinvolto da quest’estetica talmente perfetta, la quale, non ti abbandonerà, mai!
Questa è la sintesi delle copertine più belle degli album del 2021: scegliete pure quella che preferite e come al solito vi pagherò da bere!
Continua a leggere “BEST COVER ALBUM 2021 – Le copertine più belle degli album 2021”
+ 01) Canned Heat – musica tossica (rock e dintorni), 02) Green Spritz – l’eterna giovinezza (gli album migliori dell’anno)
i migliori album del 2021 per l’Intonation Cocktail Club 432
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Come ripeto tutti gli anni le classifiche sono sempre legate ai propri gusti personali, ma se il gioco vale la candela, allora giochiamo, e divertiamoci attraverso quelli che sono senz’altro dei prodotti d’eccellenza e che hanno fatto vibrare le note di questo 2021. Chiaramente, non è mai facile scegliere 20 album (come mi sono sempre proposto) lasciandone fuori degli altri altrettanto meritevoli, come per esempio l’ultimo degli Old Time Religion o quello di Aran Strab, veramente buoni, oppure rimanendo nelle nostre sponde quello di Cristina Donà. D’altronde, oltre a cercare una certa varietà di proposte e di stili, ci sono sempre dei piccoli particolari che cambiano le prospettive ed è giusto così, d’altronde, come ho premesso, è soltanto un gioco: il mio!
Proprio per questo vi faccio gli auguri per un 2022, almeno musicalmente, fantastico, e ancora più bello di questo appena passato
il Barman del Club
I migliori 20 album del 2021
per l’Intonation Cocktail Club 432
Black Country, New Road – For the First Time
Black Midi – Cavalcade
Clustersun – Avalanche
Fly Pan Am – Frontera
Godspeed You! Black Emperor – G_d’s Pee at State’s End!
Hello Cosmos – Dream Harder
Joan As Police Woman – The Solution Is
Mythic Sunship – Wildfire
Nels Cline – Share the Wealth
Rome – Parlez-Vous Hate?
Rostro del Sol – Rostro del Sol
Ryley Walker & Kikagaku Moyo – Deep Fried Grandeur
Sault – Nine
Squid – Bright Green Field
Tausend Augen – Westend
The Breakbeast – Monkey Riding God
The Weather Station – Ignorance
The Wild Century – 5
Xiu Xiu – Oh No
Iosonouncane – Ira
Miglior album di cover
Lucinda Williams – Runnin’ Down a Dream: a Tribute to Tom Petty
Miglior album live
Nick Mason’s Saucerful of Secrets – Live at the Roundhouse
Can – Live in Stuttgart 1975

Continua a leggere “i migliori album del 2021 per l’Intonation Cocktail Club 432”
Per fare a tutti voi i mieli migliori auguri di Buone Feste, ho scelto come al solito la mia versione musicale, parlando delle ultime uscite di quest’anno, tanto per allietarvi con delle buone pubblicazioni e delle bellissime note, le quali, potranno accompagnarvi verso il Natale nel migliore dei modi. Buon ascolto…
partiamo ragazzi…
Continua a leggere “La forza del rock’n’roll – ultimi ottimi album del 2021”
La poesia è spesso un viaggio psicanalitico che supera gli abissi della nostra mente, perché, partendo da queste profondità, si eleva superando l’illusione di rigenerarsi con le parole. Sostanzialmente, la parola stessa diventa materia organica e non mezzo simbolico dove fondersi con i propri sentimenti, lasciandoli poi evaporare così come sono nati. Seguendo questa traccia la poesia di Lorenzo Morandotti si plasma proprio dentro una struttura mai casuale, nel senso che l’impatto emotivo, apparentemente oscuro, appartiene a una matrice ben definita e molto ragionata da cui è partita. Tra l’altro, il titolo di questa sua ultima opera è emblematico come se il nostro legame d’amore, fosse talmente indissolubile da non lasciare scampo a chi scrive, perché il poeta si volterà sempre per guardare il suo inferno, o il volto della sua amata perduta, e le conseguenze le conosciamo da sempre.
+ 06) Campari Shakerato – arte minima (poesia – teatro), 10) Daiquiri – per chi suona la campana (protagonisti del presente)
Antonio Bianchetti – Non so se ho scritto troppo sull’amore
Finalmente è uscito!
Era anni che lavoravo intorno a questa raccolta di poesie e per qualche motivo ho sempre rimandato la sua pubblicazione, complice anche la pandemia.
NON SO SE HO SCRITTO TROPPO SULL’AMORE (Quaderni dell’Acàrya) è sostanzialmente una storia d’amore, come dice appunto il titolo, ma dove mi sono voluto prender un po’ in giro, perché, 160 pagine e 81 poesie probabilmente sono troppe anche per un lettore attento. Però, quando si vuole raccontare una storia, questa va descritta nella sua totalità e nella sua voglia di costruire un percorso. Sostanzialmente, la matrice è il mio vissuto personale, ma la metafora si amplia proprio sull’amore universale e sulla circolarità dell’esistenza, rappresentata dalla rosa dei venti della copertina, e i punti cardinali sono i vari momenti e le varie dinamiche dell’amore: il sud è il periodo dell’innamoramento, quando l’esplosione dei sensi ci sconvolge dentro la sua meraviglia. L’est è invece la costruzione dell’amore, quando s’inizia a convivere con tutte le complicazioni del rapporto di coppia e tutti i condizionamenti del mondo esterno e interno, fino all’intimità più vera. Il nord è il dolore, la morte o la sofferenza e la fine di una storia. Però è diviso in due parti, in un contesto dove, dopo le assenze, percepiamo le “presenze” di un’energia che esiste intorno a noi, ogni volta vicina al concetto di eternità, fino all’avvento dell’ovest, concepito come un immaginario americano e come scoperta dell’ultima frontiera: attraversare l’oceano verso una terra nuova per la rinascita della vita.
Continua a leggere “Antonio Bianchetti – Non so se ho scritto troppo sull’amore”
Rieccoci fra noi, con un excursus su delle ultime uscite interessanti, di vario genere, giusto il tempo per emozionarci ancora una volta, perché, come ripeto sempre fino allo sfinimento, la bellezza della musica non ha mai fine, e ogni volta è una scoperta sorprendente.
Partiamo…
Continua a leggere “Divagazioni fra rock e dintorni – ultime buone uscite del 2021”
Votate “Dozzinale” per un mondo migliore
(ballata per un barman)
Cambia canale ragazzo
questa è l’ultima elezione
perché lo sguardo non va
oltre la tua croce
Continua a leggere “Votate “dozzinale” per un mondo migliore”
Le immagini sono prese dal web
Il rock non è solo irruenza, ma anche dolcezza, quiete, poesia. Ecco perché fermarsi ogni tanto dentro tutta questa bellezza, ci potrebbe saziare dopo una lunga giornata complicata, come ce ne sono tante. In fondo, le tregue sono necessarie dopo ogni guerra che ci sentiamo addosso, e la ricostruzione che verrà, farà si che l’anima si ricongiunga con il corpo per il suo necessario risarcimento. La musica possiede queste qualità e gli album che vi propongo rappresentano la degna soluzione per una pausa salutare insieme a voi, dentro ognuno di noi.
Iniziamo…
Continua a leggere “Divagazioni fra rock e melodia – ottime uscite del 2021”
Le immagini sono prese dal web
Dopo una sbornia psichedelica, concentriamoci su delle uscite che a mio avviso quest’anno sono una spanna superiore alla media delle pubblicazione proposte, anche se nella moltitudine esagerata è sempre difficile fare delle scelte azzeccate. Comunque, fidandomi del mio gusto personale, questi dieci album si concentrano su quell’idea di ritmica che sta alla base del rock’n’roll, e che, nelle sue derivazioni e/o contaminazioni, rimarranno sempre in equilibrio fra intrattenimento e arte pura.
Partiamo…
Continua a leggere “Divagazioni fra rock e roll – gioielli pregiati del 2021”
immagine di Jane Thomas
Giunti a questo punto dell’anno facciamo un excursus sulle uscite musicali migliori (per quello che mi riguarda) nei vari ambiti del rock, e iniziamo con un giro psichedelico di aperitivi, fatto di classe, passione e sovraesposizione sonora, non solo per l’eccessiva espressività degli strumenti, ma per l’estensione e la coniugazione fra passato e futuro di un genere che non tramonta mai.
Iniziamo…
Continua a leggere “La fascinazione psichedelica – altre buone uscite del 2021”
Gli ultimi fermenti di un new-post-punk britannico, arricchito quanto basta di sperimentazioni e d’improvvisazioni, sta creando una scena molto interessante in cui tutta una serie di band che vanno dagli Idles ai Black Midi, dagli Squid ai Lice, dai Sleaford Mods agli Shame, dai Life fino ai cugini irlandesi della Girl Band, dei Fontaines D.C. o dei The Murder Capital, stanno infiammando i Pub e i locali delle loro città, con un sound particolarissimo, fatto di spoken-word e chitarre schizofreniche, riuscendo a coniugare la poesia urbana dei bassifondi con le lacerazioni sonore cresciute nel disagio o nell’espressività giovanile. È come se, dando un calcio alle inutili reminiscenze della “trap”, fosse ritornato ancora più irruento e pieno di rabbia il punk di una volta, centrifugato e sintetizzato nei testi e nella liricità di una nuova generazione di adolescenti, i quali, cresciuti fra emarginazione e impegno culturale, sono riusciti a esprimersi con un valore intellettuale sorprendente. Evidentemente, se il compianto Mark Edward Smith aveva già a suo tempo segnato una strada importante con i suoi The Fall, ora ci ritroviamo di fronte un’autostrada dove sfrecciano tutti i suoi epigoni, riappropriandosi del presente, fino a manipolarlo come una forma di creta vivente. I Balck Country, New Road fanno parte di questa squadra, alternativi quanto basta per emergere dal gruppo con la loro epica quotidiana, come se, consapevoli di essere nati negli anni zero, fossero proprio loro i protagonisti di questi nuovi anni venti.
Continua a leggere “Black Country, New Road – For the First Time”
ANDREMO A RODI
Volevi andare a Rodi
per diventare ancella
intorno a quelle mura
dove il braciere
arde ancora nella sua storia
Dopo quasi due anni di inattività musicale dal vivo, c’è una voglia matta di rivedere dei concerti per non morire dentro le mura di casa. Proprio questo sabato, allo Joshua Blues Club: l’unico locale dove a Como si possa ascoltare della buona musica, c’è stata una bellissima kermesse di gruppi punk-garage veramente notevoli, compresi i portoghesi The Dirty Coal Train, che hanno chiuso la serata alla grande. Se poi consideriamo i vari festival che si sono consumati quest’estate, in tutta la penisola, ci rendiamo conto di quanto vale la musica come bene collettivo, e il piacere che ne deriva è incommensurabile. Ecco che la pubblicazione di una serie di album live, pre e post pandemia, è la medicina necessaria per sentirsi ancora meglio.
Vi propongo 12 live pubblicati quest’anno, di vario genere, e qualche ristampa di concerti epocali che, non solo ci fanno ritornare in un’epoca leggendaria, ma ci garantiscono la continuità per chi, vorrà emergere, emulando le performance al tempo degli dei.
Continua a leggere “Meraviglie dal vivo – i migliori album live pubblicati nel 2021”
In una stagione di lotte e fermenti come gli anni ’60 del secolo scorso, Pasolini inaugurava quella che chiamò “poesia operaia“, e che successivamente prese una strada del tutto particolare, un po’ per allontanarsi dalla realtà salottiera di allora, fintamente intellettuale, e un po’ per uscire dai piagnistei di una certa letteratura della solitudine, in cui molte liriche del ‘900 si erano circoscritte intorno alla politica del frammento, spesso incomprensibile. C’era bisogno di alzare il tiro della discussione, di far entrare la poesia nelle fabbriche per essere parte stessa della lotta, per sentirsi partecipi di un particolare periodo storico, per portare la cultura in ogni settore sociale, per dare voce a chi, altrimenti, veniva ghettizzato nei circuiti underground, perdendosi poi negli stessi labirinti in cui si cercava di uscire. L’intellighenzia dominante (o del potere costituito) rifiutava una “parola” che esprimeva un dissenso scritto con i verbi di tutti i giorni. Si creò così una realtà parallela: quella alta sfociò nelle avanguardie, e quella proletaria invece, rimase ancorata nelle sue convinzioni di base, di denuncia, di provocazione, di realismo crudo e intimo nello stesso tempo, per farsi sentire, anche con i sentimenti. Potremmo citare esempi illustri come i ciclostili di Ferruccio Brugnaro, i volantini di Franco Cardinale, l’ironia di Donato Rossi e Sandro Sardella, i rumori di Francesco Currà, il ferro e la terra di Tommaso Di Ciaula, fino al dialetto di Giovanni Rapetti od opere splendide come “Una cosa sublime” di Attilio Zanichelli.
In questo filone s’inserisce a pieno titolo la poesia di Matteo Rusconi. La sua ultima raccolta intitolata “Trucioli” (AutAutEdizioni) è una bellissima dimostrazione letteraria di una giornata di lavoro in cui, la fatica, la fabbrica, l’alienazione e i fogli di un libro sono una cosa sola, fra ingranaggi e sentimenti.
I Sault sono un collettivo londinese di cui si conosce pochissimo, i quali, nel giro di soli due anni, sono giunti al loro quinto album: “Five” e “Seven” nel 2019; “Untitled (Black Is)” e “Untitled (Rise)” nel 2020, fino a quest’ultimo “Nine“, quasi a seguire un’ordine dispari nella loro numerazione. Tutti scritti con dei fiammiferi.
La loro connotazione è tutta concentrata su una musica tipicamente black, in cui funky, rhythm and blues e una forma ibrida fra rap & spoken word si fondono dentro un soul moderno, ritmato, misurato e viscerale al tempo stesso, dove convergono tutte le dinamiche del mondo di colore, soprattutto quelle relative alle diseguaglianze e alla quotidianità complicata delle periferie di una metropoli estesa come la capitale britannica. Quello che colpisce è come sono riusciti a circoscrivere la rabbia in un sound inaspettato per le tematiche narrate, in cui, la sovrapposizione delle melodie stende un tappeto di perfezionismi dove dolcezza e malinconia spesso s’incontrano. In fondo, come diceva un cantautore di casa nostra, è proprio dal letame che nascono i fiori.
Per chi ama le sonorità “kraut” inzuppate di psichedelia con una venatura melodica tanto per non farvi mancare niente, questo è il disco che fa al caso vostro. Dannatamente ritmici, fottutamente coinvolgenti, follemente estroversi, questo ensemble losangelino nato da un progetto del solista Bert Hoover si è poi allargato a una vera e propria band, completando un progetto che via via ha preso corpo aggiungendo sempre più elementi alla struttura di base composta da tre persone. Non è casuale che il nome, pronunciato Hoover Three, originariamente stilizzato in Hoover III, si è poi variegato in Hooveriii, quasi a valorizzarlo come un acuto in tutto il loro contesto musicale.
Lo so, lo so, spesso nel periodo estivo lascio il bar incustodito, ma cosa ci volete fare, il caldo prende il sopravvento e il bancone diventa il vostro territorio. Non c’è problema, potete servirvi senza problemi, intanto, proprio perché l’assenza equivale a un periodo di riflessione, vi parlerò dei libri che ho letto quest’estate, fra letteratura e cultura pop, anche per iniziare una nuova stagione di impegno e divertimento che ci accompagnerà fino alla fine dell’anno…
Continua a leggere “LETTURE ESTIVE – fra letteratura e cultura pop”
Flavio Almerighi è una di quelle persone che ha avuto la fortuna di vivere due esistenze: una pre-digitale e un’altra successiva. Fa parte di quella generazione cresciuta attraverso due modi differenti di percepire la vita, e ha la possibilità di sentirsi giudice di un certo comportamento che ci appartiene e che in un certo modo ci ha formato, attraverso le esperienze della crescita.
Sfrontati, irriverenti, fuori di testa, talmente geniali da segnare un confine tra pazzia e intelligenza, decidendo in qualsiasi momento da che parte stare; i Black Midi bissano il successo di due anni fa con un secondo album davvero sorprendente. Il loro sound si articola intorno a una deflagrazione schizofrenica che shakera funky, punk, cabaret, pop, rock e sperimentazione attraverso una forma teatrale in cui la musica diventa un medium per raccontare e raccontarsi, come se la provocazione, urticante e avvincente al tempo stesso, decidesse ogni volta di farsi piacere proprio per l’aspetto che genera inaspettatamente tragedia e ironia. Quello che colpisce è come riescono ad alternare melodie a ritmi vorticosi, attraverso una sceneggiatura che s’insegue ripetutamente e genera episodi sincopati fino all’eccesso, strutturando nello stesso tempo una trama coinvolgente senza un attimo di pausa. Eppure, quello che sembrerebbe un cocktail di psicofarmaci assunto come una dose eccessiva di anfetamine, si trasforma in realtà in una botta di vita che genera una fascinazione ininterrotta, proprio per l’aspetto per niente improvvisato, ma al contrario, per una genesi che rasenta la perfezione fino al mondo immaginato e completamente in sintonia intorno a loro protagonisti.
Un album il quale è stato al centro dell’attenzione in questo ultimo periodo è questo “Ira” di Jacopo Incani, in arte: Iosonouncane. Volevo premettere che questo cantautore sardo, romano d’adozione, io lo conobbi già nel 2010 quando pubblicò il suo primo lavoro: “La Macarena su Roma“, dove si concentravano tutta una serie di performance che definirle canzoni sarebbe un eufemismo riduttivo, tra cui spicca quel “Corpo del reato” facilmente identificabile come un capolavoro, non tanto perché emergeva nella sua originalità, ma perché dimostrava a pieno titolo lo spessore creativo del suo autore. Susseguentemente, dopo ben cinque anni di assenza, il nostro eroe sceglieva una strada coraggiosa, strutturando un lavoro diverso, poetico, ambizioso: “DIE“, in cui la valenza artistica di un’idea si rielaborava per diventare un’opera a tutti gli effetti, per andare al di là della consuetudine. Probabilmente, ben conscio dei limiti della propria voce: intonata ma spesso urticante, sentì il desiderio di esprimersi facendo uscire la sua vera anima, non quella delle canzonette, intese come rapporto stretto tra cantante e fruitore, ma quelle con cui si può andare oltre, superando i limiti della normalità, anche se traboccanti di sarcasmo e ironia come il suo esordio discografico. Si aprì quindi ad una ricerca intelligente, in cui l’ecologia di fondo, faceva da scenario a un concept veramente metaforico, in cui, se in sardo o in latino Die è il giorno, in inglese vuol dire morire. Ecco che la molteplicità dell’esposizione si riempì di significati, abbracciando tutto il percorso della nostra esistenza, come se il volto della vita si mostrasse proprio nell’attimo del distacco, facendosi guardare in quell’unica volta dove l’eternità ci passava davanti. Diventava un evento rivelatore con delle suite in cui l’imput progressive si trasformavano subito nel delirio lisergico intriso di avanguardia lirica e destrutturazione musicale.
Questo trio tedesco esordisce con un album decisamente figlio di una tradizione germanica, la quale ha fatto di un certo tipo di musica un marchio di fabbrica incancellabile, soprattutto quando l’elettronica prende il sopravvento trasformando le vie di fuga in un’infinita e continua deriva di ritmi sincopati, sempre in equilibrio con una forma marziale e una violenza gestita da manuale che non impazzisce mai. Il controllo della soluzione formale è totale e senza un attimo di smarrimento, in cui, le deviazioni post-punk e la teatralità ottenuta con la dizione in lingua madre: dura, ma al tempo stesso efficace per quello che vuole esprimere, si sovrappongono in un continuo inseguimento fra parole e musica. Tutto questo per colorare sarcasticamente la nostra società con una vernice indelebile, quasi per avvertirla con un segno che ci darà fastidio nonostante la sua fruibilità.
Si dice che quando un grande artista si sta incanalando verso una mesta vecchiaia (pregevole per carità, e il riferimento è diretto a Nick Cave), ce ne sono altri che riescono a seguire la sua strada, riuscendo a interpretare alla loro maniera un certo stile e un certo modo di essere. Tra l’altro, la percezione dell’ispirazione è a suo modo un innesco per altre variazioni creative, fino a diventare personaggio a sua volta senza sentirsi debitore in senso lato con il maestro.
La scomparsa di questa artista ha una valenza soprattutto per quello che ha lasciato, o ispirato, in un periodo particolare della crescita di Nick Cave e dei Bad Seeds, e in senso traslato per un certo modo di sentire la musica e la poesia. Vi lascio per l’appunto l’articolo apparso sul portale di Rolling Stones Italia che mi sembra ben fatto e che rappresenta appieno la sua figura femminile.
I Mythic Sunship sono un gruppo danese già attivo da diversi anni, il quale è riuscito a coniugare la forma psichedelica con una improvvisazione free decisamente trascinante, soprattutto dopo aver inserito nella formazione il sassofonista Søren Skov, sovrapponendo esplosioni sperimentali ad altre pulsioni sempre in continua successione. Quest’ultimo lavoro è la degna continuazione di quel capolavoro che è stato Another Shape of Psychedelic Music e del susseguente live Changing Shapes: due tasselli incastonati nella bellezza pura del caos e del disordine che diventano un monumento ineguagliabile dedicato al delirio. Poi, lo sappiamo tutti, la musica è un maledetto medium in cui il suo territorio si trasforma nell’esatta reincarnazione dell’inferno, per poi edificare il paradiso proprio da quest’esperienza dove le fiamme ci lanciano oltre le soglie del cielo. Se per un attimo ci sentiamo immortali, quest’illusione ci permette di configurare la vera essenza della gioia.
Spesso celebriamo la scomparsa di personaggi famosi: artisti, cantanti, attori che hanno lasciato una traccia di loro in maniera indelebile nella cultura pop di questi ultimi anni. Ma chi vive intorno a loro con i suoi scritti andrebbe ricordato in egual misura, perché contribuisce non solo ad aumentare la nostra conoscenza e la nostra passione verso molti protagonisti (a volte anche minori), ma è proprio per mezzo di questi professionisti che un artista si fa conoscere in maniera completa, ampliando il suo alone mitico.
Maurizio Principato, oltre ad essere stato un giornalista di Radio Popolare, è diventato un divulgatore musicale che riusciva ad andare oltre i soliti luoghi comuni nonostante si calasse nella parte con un’umiltà tutta sua. Le sue trasmissioni su Frank Zappa o John Zorn non solo mi hanno lasciato dentro una prospettiva diversa su quello che si leggeva in giro, ma entravano nelle vite di questi compositori con una originalità e una simpatia veramente alternative.
Continua a leggere “Maurizio Principato – addio a una grande voce”
Proprio nel post precedente avevo accennato a come la creatività nel mondo musicale odierno si sia rivolta al passato, costruendo un presente in cui l’evoluzione è rimasta circoscritta in una forma di bellezza ripetitiva, emulativa, rispecchiata in sé stessa, probabilmente, perché era talmente alta quella precedente che il superarla diventava quasi impossibile. Attenzione: quasi!
Perché è importante questo avverbio? Perché nel calderone di oggi in cui la pubblicazione infinita di materiale messo in circolazione, spesso confonde gruppi o solisti meritevoli, capita di imbattersi in un’opera veramente buona, la quale rischia di perdersi nella moltitudine e di sfuggire al grande pubblico, o perlomeno, al pubblico mainstream. Non che sia importante, perché solitamente l’appassionato autentico di musica scopre e ascolta una qualità la quale evade una certa notorietà, rimanendo circoscritta nei circuiti underground o nelle vie di culto trasformandosi in casi artistici o leggende che assumono la notorietà col tempo.
Questo è il caso dei Godspeed You! Black Emperor: ensemble canadese da cui straripa un fascino immaginifico unico e costellato da una carriera particolare, centellinata con le giuste dosi per seminare un capolavoro dietro l’altro, lungo un arco che supera i 25 anni, come quest’ultimo album, assolutamente fantastico.
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Skookum’s Pub
La ballata degli ubriachi
Saliva che brucia
saliva che arde
improvvisa fra le dita
Sole che nasce sole che muore
gesto nato da una genesi diversa
Cenere persa
confine che separa
quiete e tempesta
un luogo dove dio
è una persona qualunque
e fra le tante si manifesta
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Cosa ci porta la ricerca dell’ascolto di prodotti che vogliono indagare il presente pensando al futuro? Semplice, ci fanno rimanere nel passato! Il problema principale di oggi è che nessuno pensa a creare delle soluzioni innovative (o nuove se vogliamo) perché viviamo in un tempo in cui il rischio non interessa a nessuno, o perlomeno, qualsiasi musicista che entra nel suo vortice creativo, esplora il suo animo senza porsi il problema di essere originale ma, di piacere, e per fare questo si adagia nella consuetudine del già sentito, del già sperimentato, del già assimilato. Così facendo si è sicuri di avere quello che conta oggi: essere percepiti all’istante, con la visibilità dell’immediato per avere più visualizzazioni possibili, più contatti, più followers e far parlare di sé in questa maniera. Di conseguenza la musica ne ha risentito entrando in uno stallo perenne, come se vivessimo in un territorio dove non esiste nessun tipo di evoluzione, riciclando di continuo la bellezza come l’esatta ripetizione di quella precedente senza il coraggio di rischiare, e la massa si è adeguata.
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